La mattina di questo 4 ottobre, papa Francesco ha aperto l’attesissimo sinodo (sulla forma sinodale della Chiesa) citando Paolo VI, quando auspicò una Chiesa capace di farsi colloquio. Ovviamente colloquio con il mondo, con le nostre società e i nostri problemi: quindi una Chiesa che non rinchiude Gesù nelle sagrestie. Questo colloquio non è tra blocchi: come nel mondo, anche in questa Chiesa ci sono diverse sensibilità, non viviamo dappertutto nello stesso modo e con le stesse priorità, e il colloquio non è uno solo, identico a sé ovunque, a tutte le latitudini e longitudini. Ciò conferma che siamo a uno snodo decisivo e contestato dai conservatori soprattutto anglosassoni. La Chiesa si accinge ad assumere una forma più simile a quella che ebbe alle origini e diversa da quella che si è imposta nel Medioevo?
Il tema divide, e lo si vede; ma l’appello al colloquio, proprio nella diversità delle idee, per essere vero non poteva cominciare senza che il papa rispondesse alle vecchie certezze presentategli sotto forma di dubbi da alcuni cardinali che rifiutano la sua visione di una Chiesa non solo gerarchica ma di tutti, cioè della gerarchia ma anche dei fedeli e delle fedeli, tanto che a questo sinodo (che sulla carta sarebbe ancora sinodo dei vescovi) votano anche le donne.
Fedeli alla visione verticista, piramidale della Chiesa, quella emersa appunto nel Medioevo, i cardinali, tre emeriti – cioè ultraottentenni – e due con diritto di voto in caso di Conclave, lo spiegano bene nella domanda con cui illustrano l’estraneità di questa sinodalità, che potremmo intendere come “collegialità”, quindi partecipazione di tutti al processo decisionale ai vari livelli ecclesiali (locale, nazionale, continentale, universale). Per i cardinali “dubbiosi” questo è impossibile, la forma della Chiesa universale emersa dal Medioevo lo esclude: e infatti la loro prima domanda al papa è questa: “Si chiede se la sinodalità può essere criterio regolativo supremo del governo permanente della Chiesa senza stravolgere il suo assetto costitutivo voluto dal suo Fondatore, per cui la suprema e piena autorità della Chiesa viene esercitata, sia dal Papa in forza del suo ufficio, sia dal collegio dei vescovi insieme col suo capo il Romano Pontefice”.
Il cuore della risposta di Francesco, più articolata di quanto qui si citi, è a nostro avviso il seguente: “Sebbene riconosciate che l’autorità suprema e piena della Chiesa sia esercitata sia dal Papa a motivo del suo ufficio, sia dal collegio dei vescovi insieme al loro Capo, il Romano Pontefice, con queste domande stesse manifestate il vostro bisogno di partecipare, di esprimere liberamente il vostro parere e di collaborare, chiedendo così una forma di ‘sinodalità’ nell’esercizio del mio ministero”. Il punto è chiarissimo, e introduce bene questo ulteriore passaggio: “La Chiesa è un ‘mistero di comunione missionaria’, ma questa comunione non è solo affettiva o eterea, bensì implica necessariamente una partecipazione reale: non solo la gerarchia, ma tutto il Popolo di Dio in modi diversi e a diversi livelli può far sentire la propria voce e sentirsi parte del cammino della Chiesa”. Dunque non assemblearismo contro verticismo gerarchico, ma “comunione”, questo è il punto decisivo. La gerarchia rimane, ma non è una gerarchia escludente, nella quale c’è chi guida e chi esegue o viene guidato, un po’ come nella riforma liturgica conciliare, nella quale non è più il sacerdote che celebra, da solo, ma tutto il popolo di Dio, sacerdote e fedeli, che celebrano insieme intorno alla mensa eucaristica.
La certezza dei cardinali, presentata sotto forma di dubbio, sul fatto che la forma sinodale stravolgerebbe la Chiesa gerarchica, seguiva, nel loro documento, un’altra domanda decisiva: “Si chiede se nella Chiesa la Divina Rivelazione debba essere reinterpretata secondo i cambiamenti culturali del nostro tempo e secondo la nuova visione antropologica che questi cambiamenti promuovono; oppure se la Divina Rivelazione sia vincolante per sempre, immutabile e quindi da non contraddire”. È evidente che, anche qui, più che un dubbio vi è una certezza esposta dai cardinali: la Divina Rivelazione non si interpreta, si attua. “A” vuol dire sempre “A”, ovunque e comunque, come può questa evidenza essere reinterpretata?
La risposta di Francesco anche qui è ampia, ma il suo nucleo decisivo appare essere questo: “La risposta dipende dal significato che attribuite alla parola ‘reinterpretare’. Se è intesa come ‘interpretare meglio’, l’espressione è valida. In questo senso, il Concilio Vaticano II affermò che è necessario che, con il lavoro degli esegeti – e aggiungo, dei teologi – ‘maturi il giudizio della Chiesa’. Pertanto, se è vero che la divina Rivelazione è immutabile e sempre vincolante, la Chiesa deve essere umile e riconoscere di non esaurire mai la sua insondabile ricchezza e di avere bisogno di crescere nella sua comprensione”. Si vede una parola decisiva, “umiltà”. La divina Rivelazione è di Dio, non nostra, sembra di poter capire; e l’umiltà ci guida a comprendere che possiamo e dobbiamo sempre comprenderla meglio.
Altro punto decisivo, che è stato molto discusso in molti sinodi territoriali e nazionali, è quello della benedizione delle unioni omosessuali. Anche qui, il dubbio posto dai cardinali non contempla alcun dubbio: “Dio creò l’uomo a sua immagine, maschio e femmina li creò e li benedisse, perché fossero fecondi, per cui l’Apostolo Paolo insegna che negare la differenza sessuale è la conseguenza della negazione del Creatore. Si chiede: può la Chiesa derogare a questo ‘principio’, considerandolo, in contrasto con quanto insegnato da Veritatis splendor 103, come un semplice ideale, e accettando come ‘bene possibile’ situazioni oggettivamente peccaminose, come le unioni con persone dello stesso sesso, senza venir meno alla dottrina rivelata?”.
Come nei casi precedentemente citati, la domanda sembra chiedere un sì o un no. Ma non si può dare una risposta semplice trattandosi di una materia complessa: “La Chiesa ha una concezione molto chiara del matrimonio: un’unione esclusiva, stabile e indissolubile tra un uomo e una donna, naturalmente aperta a generare figli. Solo questa unione si può chiamare matrimonio”. Dunque il matrimonio per la Chiesa è uno solo, e non è un mero ideale. Ma c’è la parola più cara a Paolo VI, il papa del Concilio, la parola “ma”. E infatti Francesco prosegue: “Tuttavia, nel rapporto con le persone, non si deve perdere la carità pastorale, che deve permeare tutte le nostre decisioni e atteggiamenti. La difesa della verità oggettiva non è l’unica espressione di questa carità, che è anche fatta di gentilezza, pazienza, comprensione, tenerezza e incoraggiamento. Pertanto, non possiamo essere giudici che solo negano, respingono, escludono. Pertanto, la prudenza pastorale deve discernere adeguatamente se ci sono forme di benedizione, richieste da una o più persone, che non trasmettano un concetto errato del matrimonio. Perché quando si chiede una benedizione, si sta esprimendo una richiesta di aiuto a Dio, una supplica per poter vivere meglio, una fiducia in un Padre che può aiutarci a vivere meglio”. Servono ancora dei “ma” per concludere questo ragionamento. Perché “sebbene ci siano situazioni che, dal punto di vista oggettivo non sono moralmente accettabili, la stessa carità pastorale ci impone di non trattare semplicemente come ‘peccatori’ altre persone la cui colpa o responsabilità può essere attenuata da vari fattori che influenzano l’imputabilità soggettiva”.
Se allora è eccessivo normare tutto in un modo, sarebbe eccessivo normare tutto in qualsiasi altro modo, a cominciare da quello opposto! Quella che propone Francesco è la capacità di discernere. E il discernimento non si fa tra le idee ma tra le esperienze. Non si può fare di tutti i divorziati risposati un unico cesto, perché ci sono situazioni e persone diverse, storie diverse, e a noi sembra che questa diversità valga anche in altri contesti. Davanti a noi abbiamo storie, esperienze, non idee. “Il Diritto canonico non deve né può coprire tutto, e nemmeno le Conferenze episcopali con i loro documenti e protocolli variati dovrebbero pretenderlo, poiché la vita della Chiesa scorre attraverso molti canali oltre a quelli normativi”. Il mondo di Francesco non è bianco o nero, e questo vale sia per chi vede una norma rigorista, sia per chi vuole sostituirla con una permissivista.
Non è possibile tentare un riassunto fedele ed esplicativo di tutte le risposte date alle certezze dei cardinali esposte sotto forma di dubbi. Ma il punto sulla misericordia va almeno accennato per la sua importanza politica, culturale, universale, quindi cattolica. I cardinali chiedono “se sia ancora vigente l’insegnamento del Concilio di Trento, secondo cui, per la validità della confessione sacramentale è necessaria la contrizione del penitente, che consiste nel detestare il peccato commesso con il proposito di non peccare più (Sessione XIV, Capitolo IV: DH 1676), cosicché il sacerdote deve rimandare l’assoluzione quando sia chiaro che questa condizione non è adempiuta”. Anche qui è evidente che nel dubbio c’è una certezza. La risposta comincia così: “Il pentimento è necessario per la validità dell’assoluzione sacramentale e implica l’intenzione di non peccare. Ma qui non c’è matematica e devo ricordare ancora una volta che il confessionale non è una dogana. Non siamo padroni, ma umili amministratori dei sacramenti che nutrono i fedeli, perché questi doni del Signore, più che reliquie da custodire, sono aiuti dello Spirito Santo per la vita delle persone”.
Si parla molto di crisi della fede e della Chiesa; i dubbi dei cardinali sembrano rispondere a questa crisi con più rigore, più nettezza, per respingere il rifiuto da parte dell’uomo moderno della fede. Il discernimento che propone Francesco offre soprattutto a chi si sente respinto, ai post-credenti e alla Chiesa, una risposta nuova, capace di aprire una stagione che legge i segni dei tempi. Forse è proprio per questo, per i rischi di aperture inattese, che i cardinali dubbiosi hanno respinto la risposta del papa, chiedendone una diversa. Hanno riproposto, in sostanza, i loro quesisti chiedendo che il papa risponda semplicemente con un sì o con un no. E qui la fede sembra ridursi a un cruciverba o a quella vecchia rubrica della “Settimana enigmistica”: “Vero o falso?”.