Contestato. Se è probabilmente questo il destino di tutti i leader riformatori, è certamente il destino di papa Francesco, il riformatore che non vuole scismi tradizionalisti per un convincimento profondo: i poli non si elidono, restano in tensione. La grande novità culturale del pontificato di Francesco è qui: in un mondo chiuso e autoreferenziale, monolitico, centralista, verticista, lui ha portato il vento disorientante del pluralismo. Una riforma che sa di rivoluzione per i custodi di una tradizione che, in fin dei conti, altro non è che l’illusione di poter eternizzare il Medioevo, e che sa di melina per i riformisti illusi che solo la loro riforma sarebbe quella giusta, perfetta. Per capire il tradizionalismo dei tradizionalisti odierni, basta guardare le immagini dei papi di ieri e del papa di oggi: dove sono finiti i merletti, non ci sono più ghingheri a San Pietro? È improbabile che eliminarli voglia dire rompere con la Chiesa delle origini. Gli apostoli o i padri della Chiesa si agghindavano così? Ma quei ghingheri e quei merletti rispondevano a una precisa tradizione, quella medievale, segnata da un conflitto di potere con l’imperatore che richiedeva ostentazione per rivaleggiare per l’autorità anche nei simboli.
In quel contesto, dunque, quei pontefici avevano un senso, in quello odierno crediamo di no. Chi lamenta che la Chiesa con Francesco non ha più autorità non considera che è cambiato il paradigma dell’autorità ecclesiale, dai tempi del non expedit. Gli Stati esistono, sono sovrani, l’autorità della Chiesa non è più quella di incoronare l’imperatore, ma quella di offrire una bussola morale a un mondo disorientato. Questa autorità non si ottiene con i lunghi strascichi rossi degli abiti cardinalizi che furono, ma con la coerenza evangelica, con il ritorno ai modelli dei padri, quelli senza potere, vissuti con la capacità di portarli nell’oggi. I fautori del cambiamento totale, radicale, repentino, commettono però lo stesso errore. La storia è fatta di passi, non di strappi: non si può negare alle altre idee di Chiesa quella dignità che alla propria è stata ingiustamente negata per secoli. Superando così la cultura della nostalgia e seguitando a lavorare sull’orizzonte delle riforme.
Questo vuol dire riforme annacquate e un solo no, quello ai nostalgici? Non diremmo. C’è, e ce n’è pure troppa, di nostalgia nel Vaticano di Francesco. Nel senso che lo stile, la riforma spirituale ha riguardato pochi. Ma c’è. La gente la vede, la percepisce, la riconosce, sia dentro sia fuori dalla Chiesa: e questa è la nuova forma di autorità, di potere, che la Chiesa del papa riformatore, senza riforme perfette e senza tradizionalismi da custodire, le ha dato. Il potere dell’autorevolezza, della credibilità. È quella che in gergo ecclesiale si chiama testimonianza, e che le tante richieste di riforme “dottrinali” non colgono, cadendo in una sorta di dottrinalismo capovolto. I contestatori vedono la testimonianza nella testimonianza dei divieti, delle condanne, dei pollici versi nei confronti di singoli o coppie. Per Francesco no; il fatto oggettivo vale, ma la valutazione riguarda il soggetto, la sua vita, la sua realtà, il suo modo di cercare Dio.
Ovviamente, c’è anche chi si rifugia nell’identitarismo, per dividere i buoni dai cattivi, e lo rimprovera di non piegarsi mai a questa semplificazione schematizzatrice. Anche questo è un terreno indisponibile per il papa, che dai tempi dell’invasione dell’Ucraina ha rifiutato lo schema “buoni/cattivi”. Lo schema, se schema dev’esserci, è “giusto/sbagliato”, mai “buoni/cattivi”. La guerra d’invasione è guerra d’invasione, non ci sono però figli delle tenebre o figli della luce. Ecco allora che definendo il patriarca di Mosca “il chierichetto di Putin” ha anche detto, implicitamente, che lui non è il chierichetto di Biden. Vale ovunque.
Le contestazioni si accavallano, si intrecciano, si incontrano in un mare di polarizzazioni, per cambiare tutto o non cambiare nulla, sposare un campo o sposarne un altro, che non gli appartiene, perché per lui i poli – ripetiamo – non si elidono, sono entrambi necessari. Nella sua visione i poli della contrapposizione, non della contraddizione, generano energia.
Un esempio: globale o locale? Per Francesco – lo ha detto dall’inizio del suo pontificato – la risposta è “globalizzazione poliedrica”: non una globalizzazione come quella attuale, che tende ad appiattire, a renderci tutti uguali, equidistanti dal centro della sfera, ma una globalizzazione poliedrica, che affronta le sfide comuni e rispetta le differenze. Perché? Perché lui crede che se Dio ci ha fatto diversi avrà avuto le sue buone ragioni.
Che nel fare di questa “rivoluzione pluralista”, basata sul potere della testimonianza come propulsore evangelico, che non richiede autorità ma autorevolezza e coerenza, si possano essere commessi errori procedurali o di governo, è normale. Ma non saranno le contestazioni ad alterare il significato e il giudizio sulla portata di un pontificato epocale. Il tempo passa per tutti, l’impossibilità per motivi sanitari di andare a Dubai, al vertice mondiale sul clima, testimonia la debolezza della salute, la sua fragilità. Ma anche nella sostanza di questo annuncio c’è una riforma: sul papa e la sua salute adesso si dice la verità.