Le parole di papa Bergoglio (subito criticate da molti nostri benpensanti ed evidentemente non del tutto condivise neppure all’interno del Vaticano, come dimostrano le precisazioni non richieste e fuorvianti dello stesso segretario di Stato, cardinale Parolin) hanno suscitato il consenso anche di chi, pur essendo profondamente laico (come Rino Genovese, vedi qui), è seriamente preoccupato delle sofferenze della popolazione ucraina (delle quali nessuno dei benpensanti di cui sopra sembra interessarsi molto) e del rischio che il conflitto, finora regionale, possa diventare mondiale e quindi, con ogni probabilità, nucleare. Tuttavia, l’Ucraina, in particolare il suo presidente Zelensky, potrebbe davvero avviare un negoziato? A mio avviso, no, e non per il motivo ufficialmente sbandierato dai suoi governanti (“non si può venire a patti con l’aggressore”, ecc.), ma perché questo Paese non ha più alcuna possibilità di attuare una politica propria.
Il momento in cui l’Ucraina ha perso ogni voce in capitolo risale esattamente a due anni fa. All’inizio di marzo 2022, com’è sempre opportuno ripetere, soprattutto perché i grandi media costantemente ignorano la circostanza, Zelensky aveva proposto una soluzione di compromesso, che prevedeva un accordo per il Donbass, un accantonamento provvisorio della questione Crimea e l’impegno dell’Ucraina a non aderire alla Nato. Quando, alla fine di quel mese, i negoziati stavano per aprirsi in Turchia, grazie all’iniziativa di Erdoğan, l’intervento di Biden e di Boris Johnson li ha fatti fallire (il fondatore della Comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi, in un’intervista al “Fatto quotidiano” di qualche settimana fa, cita alcune dichiarazioni dell’allora premier britannico, che si gloriava proprio di tale intervento; Riccardi non indica la fonte, ma non si vede perché dovrebbe inventarsi tutto). A due anni di distanza, non sembra che Zelensky possa avere la forza di proporre nuovamente una tale soluzione, per almeno tre motivi.
Il primo è di carattere interno. Un’iniziativa negoziale di questo genere porterebbe a un indebolimento enorme della sua posizione: da un lato, i gruppi fautori di una guerra a oltranza (e certamente ce ne sono, come ce n’erano due anni fa) gli si opporrebbero decisamente; dall’altro, i favorevoli alla trattativa (che esistono anche tra la popolazione non russofona dell’Ucraina, specialmente nelle zone teatro dei combattimenti) si domanderebbero giustamente perché hanno dovuto sopportare due anni di sofferenze che potevano essere tranquillamente evitati.
Gli altri due motivi che impediscono all’Ucraina di avviare qualunque ipotesi di negoziato stanno negli interessi della Russia di Putin, da una parte, e in quelli di Stati Uniti e Unione europea, dall’altro, che sono opposti, ma hanno un’unica matrice: ancora una volta, il fallimento della soluzione prospettata due anni fa. L’ovvia condizione perché tale ipotesi si possa realizzare è infatti un cessate il fuoco sulla linea attuale del fronte o con un lieve arretramento delle forze russe, cioè più o meno sul confine tra il Donbass e il resto dell’Ucraina. Ma questo esito, che Putin avrebbe forse accettato nel marzo 2022, oggi non sarebbe per lui conveniente: perché la Russia, avendo ormai dimostrato la sua chiara superiorità militare, che due anni fa la dura resistenza ucraina sembrava mettere in dubbio, dovrebbe fermarsi ai limiti del Donbass e non tornare al piano primitivo di installare un governo fantoccio a Kiev?
È molto probabile che Putin, accettando una soluzione del genere, si troverebbe indebolito sul piano interno, per gli stessi motivi di Zelensky, sia pure con il segno opposto, ovviamente. Il problema fondamentale, in altre parole, è questo: chi farebbe rispettare il cessate il fuoco e potrebbe assicurare che nel Donbass si arrivi a un accordo che tuteli, da un lato, le esigenze della popolazione russofona e dall’altro, l’integrità territoriale dell’Ucraina?
La risposta a questa domanda sembra semplice: il rispetto dovrebbe essere garantito da una forza internazionale, sotto l’egida dell’Onu, ma questa decisione potrebbe essere presa solo con l’accordo della Russia e delle potenze occidentali, in primo luogo gli Stati Uniti, seguiti dai loro alleati europei. Ma si è già visto che la Russia probabilmente si opporrebbe a questa soluzione, che potrebbe essere indotta ad accettare solo con un atteggiamento molto fermo della controparte occidentale: se infatti Usa, Ue e Nato dichiarassero di essere pronti a trovare un compromesso sulla Crimea e il Donbass, nonché a imporre all’Ucraina uno statuto di neutralità permanente, in cambio di un impegno della Russia a ritirare le proprie truppe e ad astenersi in futuro da qualunque ingerenza negli affari interni ucraini, e dichiarassero che, in caso di violazione di tale impegno, interverrebbero direttamente nel conflitto, forse Putin potrebbe scendere a patti. Ma questa non è la soluzione che poteva già essere trovata due anni fa? Se Biden, Johnson e i loro accoliti avessero veramente cercato la pace, non l’avrebbero boicottata. Ma così non è stato, e oggi, dopo due anni di guerra, tale soluzione sarebbe per loro uno smacco tanto quanto lo sarebbe per Zelensky e per Putin, anzi sarebbe una sconfitta morale ancora peggiore, paragonabile al ritiro recente dall’Afghanistan o a quello dal Vietnam di mezzo secolo fa; l’unica differenza è che, questa volta, si tratterebbe di una sconfitta sul piano diplomatico anziché militare, ma sempre di sconfitta si tratterebbe.
In sintesi, il blocco delle trattative di due anni fa, prima ancora che fossero avviate – blocco di cui l’Occidente porta la responsabilità, tanto quanto la Russia la porta dell’aggressione all’Ucraina – ha condotto alla spaventosa (per gli ucraini) e pericolosissima (per il mondo intero) situazione attuale. Si può trovare una via d’uscita a questo vicolo cieco? Personalmente, sono molto pessimista, ma, se, gramscianamente, vogliamo superare il pessimismo della ragione con l’ottimismo della volontà, l’unica soluzione sembra che possa venire da un cambio di atteggiamento dell’opinione pubblica, che può verificarsi solo nei Paesi occidentali, sicuramente più liberi della Russia di Putin. Ma questo cambiamento può essere indotto da un’ampia e decisa iniziativa politica in tal senso: finora, non solo in Italia ma anche negli altri Paesi dell’Unione europea, le forze politiche che hanno sostenuto con nettezza l’esigenza di una soluzione negoziata sono state poche e, tutto sommato, marginali, non tanto quantitativamente, ma come prestigio politico (da un lato, i 5 Stelle in Italia o la France insoumise di Mélenchon, entrambe però bollate come “populiste”; dall’altro, alcune formazioni di estrema destra).
Non resta quindi che sperare che partiti come il Pd in Italia, o la Spd in Germania, si ricordino del pacifismo che contraddistingueva la tradizione socialdemocratica, alla quale, a parole, dicono di ispirarsi: come si comporterebbero oggi personaggi come Olof Palme o Willy Brandt? Probabilmente non si accontenterebbero del ritornello “pace sì, ma solo alle condizioni dell’Ucraina”.