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Roma, colpita dai mutamenti del clima senza un piano strategico
Lavoro e transizione ecologica in Italia
Previsioni economiche: un rimbalzo senza occupazione
Il Piano di Draghi e i divari territoriali
Economisti contro Draghi
Pochi giorni fa il governo ha nominato cinque consulenti nel Nucleo tecnico per il coordinamento della politica economica presso il Dipartimento di Programmazione Economica. Ciò che colpisce immediatamente è il contrasto fra la missione del Pnrr, che prevede il più ampio intervento di investimenti pubblici da molti anni a questa parte, e la biografia intellettuale dei nuovi nominati. Tutti quanti portatori delle più estremistiche tesi in campo neoliberista.
Vediamo di chi si tratta. Carlo Stagnaro dirige il think tank di punta del neoliberismo italiano, ovvero l’Istituto Bruno Leoni, distintosi, per rimanere alle questioni più recenti, per caldeggiare la non applicazione del referendum di dieci anni fa sull’acqua pubblica; per avere contrastato ogni proposta, anche la più timida, di adeguare la tassa di successione almeno al livello dei più avanzati paesi europei; per avere criticato la proposta emersa nel G7 sulla tassazione delle multinazionali. Riccardo Puglisi non gli è da meno, persino il calmieramento dei prezzi delle mascherine anti-Covid gli è andato di traverso. Francesco Filippucci nel think tank Tortuga riprende e rilancia tutti i mantra del neoliberismo. Infine Carlo Cambini del Politecnico di Torino e Marco Percoco, un bocconiano sostenitore della liberalizzazione dei trasporti. Ovviamente siamo di fronte a una piena omogeneità di genere, e tutti sono operanti al Nord. Non solo, ma alcuni di questi sottovalutano apertamente i pericoli derivanti dal cambiamento climatico e l’urgenza di porvi rimedio.
Capitale contro lavoro: piccola storia di un decreto-legge
Il Consiglio dei ministri ha varato il decreto-legge in sessantotto articoli che assembla la questione delle semplificazioni e il tema della governance del Piano di ripresa e resilienza. Lo ha fatto non senza qualche sofferenza all’interno della maggioranza e nel rapporto con le parti sociali. Il che merita più di una riflessione. Possiamo pure cominciare dall’esito finale, del quale tutti si dicono soddisfatti. Il che, vista la turbolenza in atto fino all’ultimo momento, ingenera qualche sospetto. Mario Draghi aveva convocato in fretta e furia i sindacati confederali giovedì 27 maggio per un confronto sui punti controversi. Si è discusso dei subappalti, ma non della scottante questione dei licenziamenti, che Draghi ha considerato formalmente chiusa.
Le modifiche hanno riguardato quindi il tema dei subappalti, visto che l’argomento del criterio del massimo ribasso nelle gare d’appalto è stato stralciato dal provvedimento legislativo. La soluzione trovata è stata quella di mantenere un tetto per i subappalti pari al 50% innalzandolo dall’attuale 40%. Dal 1° novembre il tetto dovrebbe sparire in ossequio alle sentenze della Corte di giustizia della Ue, come quella del 26 settembre 2019 che aveva considerato illegittima l’apposizione del limite indipendentemente dalla sua entità. Al suo posto, dovrebbe comparire un criterio alquanto indeterminato, basato sul fatto che l’affidamento dei lavori non potrà avvenire “in misura prevalente” e con il rafforzamento del “controllo delle condizioni di lavoro e di salute e di sicurezza dei lavoratori”. Una soluzione piuttosto scivolosa e rischiosa, poiché, come sappiamo, le capacità di controllo effettive sulle condizioni di lavoro nel nostro paese sono assai ridotte, anche per l’esiguità del numero degli ispettori del lavoro, come denunciato dall’ultimo Rapporto annuale dell’Ispettorato.
Il fantasma della deregulation
Appalti e sciacalli. Il rischio di un nuovo “post-terremoto”
Parità di genere? Nel Piano di Draghi quasi non si vede
“La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”: così recita l’articolo 37 della nostra Costituzione. E l’uguaglianza di remunerazione per un lavoro di egual valore è un principio che era già contenuto nella Costituzione dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) del 1919, organizzazione della Società delle nazioni, nata con l’obiettivo di perseguire la giustizia sociale e il riconoscimento universale dei diritti umani nel lavoro, attraverso la promozione di un lavoro dignitoso – il cosiddetto decent work – in condizioni paritarie in termini di uguaglianza, libertà e sicurezza per tutte le donne e tutti gli uomini.
Nel secondo dopoguerra questo principio fu rafforzato nella Convenzione OIL n. 100, che venne ratificata dall’Italia nel 1956 dando il via a un processo di riforme, culminato con la legge 903/77 con cui il parlamento ratificò la parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro. Eppure, dati Istat alla mano, il cosiddetto gender pay gap – cioè il differenziale retributivo di genere che misura le sperequazioni tra donne e uomini a parità di mansioni – continua a esistere nel nostro Paese.