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Di Maio non poteva che finire così

La parabola di Luigi Di Maio era inevitabile non tanto per la qualità morale del personaggio, quanto per la natura stessa dei movimenti antipolitici...

Il moderatismo italiano e i suoi destini

Un principio fatale regge i destini del moderatismo italiano, e lo si può esprimere così: “Per quanti sforzi facciate per collocarvi al centro dello schieramento politico, ci sarà sempre un altro che si posizionerà più al centro di voi”. È una sorta di centrismo sempiterno, quello scaturito dalla fine dell’unico partito che abbia coperto tutte le sfumature del centro per oltre quarant’anni: la Democrazia cristiana. Dopo di questa, c’è stata una diuturna corsa al centro da parte di partiti, partitini, o semplici frammenti. L’ultimo in ordine di apparizione ha preso il nome di “Insieme per il futuro”: e i malevoli già pensano che il “futuro” consisterebbe nel conservare almeno un posto di ministro in un prossimo governo, qualunque sia la maggioranza di cui quello sarà espressione (del resto, l’attuale responsabile degli Esteri ha già dimostrato, nella legislatura in corso, capacità indubbie al riguardo). Di Maio si posiziona un po’ più al centro rispetto a Conte – che pure è al centro, ma con qualche lieve inclinazione a sinistra. E nei confronti del povero Letta? Ancora più al centro, naturalmente.

C’è una difficoltà, però. Pare che sia in cantiere un’altra iniziativa, più centrista di tutti i centrismi possibili, che dovrebbe aggregare anche Renzi, e forse perfino l’amico-nemico Calenda (che di centro tuttavia non si autodefinisce), intorno al sindaco di Milano Sala, sponsor un imprenditore e deputato dallo specchiato curriculum centrista – Forza Italia-Scelta civica-Pd-Italia viva –, uno del varesotto che ci metterebbe i soldi. Si tratterebbe di una “cosa” più draghiana di quanto siano draghiani tutti gli altri. Che farà a quel punto il draghianissimo Di Maio? Sarà o no della partita?

5 Stelle, finale di partita del qualunquismo antipolitico

“Luigi ti risponde dopo tre squilli, Conte non ti richiama nemmeno”: così un deputato passato armi e bagagli al nuovo gruppo parlamentare guidato da Di Maio descriveva il peso del fattore umano nel successo indubitabile delle adesioni alla scissione del Movimento 5 Stelle. Ironia della sorte, quello che potrebbe sembrare un dettaglio umano secondario, perfino misero, rappresenta involontariamente la celebrazione del valore del professionismo politico, che è innanzitutto un mestiere fondato sulle capacità di relazione. Quel professionismo politico che Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio si erano illusi di potere sconfiggere con il loro movimento senza strutture, senza dirigenti, senza congressi. Quel professionismo al quale è arrivato per caso anche Giuseppe Conte, e si vede nell’affanno col quale gestisce la forza politica che guida, nonostante la prova dignitosa offerta a suo tempo dalla poltrona di palazzo Chigi nel non farsi travolgere del tutto dall’emergenza Covid, in Italia, e nel negoziato sugli strumenti finanziari con i partner europei. Un professionismo che oggi rappresenta l’orgoglio e la speranza di tanti, forse quasi tutti gli eletti del Movimento, anche quelli che con Di Maio per ora non sono andati, che in molti casi incolpano entrambi i leader rivali di uno strappo che si credeva fosse possibile ricucire, e aspettano di vedere dove e quando si manifesteranno le opportunità migliori. Chi può (perché ce l’aveva prima di entrare in parlamento) rivendicando ostentatamente il possesso di un altro mestiere: “Tornerò a fare quello che facevo prima!”: che sia il medico, l’insegnante, il commercialista o l’avvocato.

Indubbiamente, l’immagine delle truppe parlamentari di Conte spopolate dalla pesca a strascico del ministro degli Esteri rende difficile credere ai sondaggi – che certamente saranno aggiornati in queste settimane, ma fino a ieri accreditavano al Movimento intenzioni di voto alle politiche ancora in doppia cifra. Sarebbe alquanto sterile, oggi, accodarsi alla folla dei profeti del giorno dopo, pronti a giurare di avere previsto tutto: il Movimento 5 Stelle ha portato in politica la sua versione qualunquista del populismo antipolitico, del quale è esistita la lettura “riformista” del picconatore costituzionale Matteo Renzi, quella tecnocratica dell’attuale capo del governo, quelle più schiettamente di destra di Silvio Berlusconi, Matteo Salvini, Giorgia Meloni.

La favola bella di Di Maio

Se non fosse che l’epoca poco si presta a fare dello spirito, verrebbe quasi da liquidare con una battuta la proposta per la pace in Ucraina avanzata dal governo italiano per bocca del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, riducendola ai termini di una favoletta da raccontare la sera ai bambini, quello che a Napoli potrebbe chiamarsi “trattenemiento de peccerille”. I quattro punti per la pace, che Di Maio ha sottoposto un paio di giorni fa, a New York, al segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, meritano invece un’analisi attenta, dato che, viste le minacce sempre più gravi che incombono sull’Europa, vale la pena di riflettere su ogni proposta che viene avanzata, possa essa sembrare più o meno praticabile o sensata. Il documento – i cui contenuti sono stati anticipati ieri da “Repubblica”, e che è stato elaborato dalla Farnesina in collaborazione con Palazzo Chigi – è stato per ora illustrato in dettaglio unicamente ai diplomatici dei ministeri degli Esteri del G7 e del Quint (Usa, Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia).

Riassumiamo quanto è emerso finora del testo, di cui non è stato ancora possibile prendere visione integralmente. Si prevede un percorso in quattro tappe, sotto la supervisione di un Gruppo internazionale di facilitazione, composto da Paesi membri della Unione europea, cui si affiancherebbero anche Paesi non europei ma membri dell’Onu. Il primo passo è il cessate il fuoco, poi verrebbe discussa la possibile neutralità dell’Ucraina, cui seguirebbe l’analisi delle questioni territoriali – Crimea e Donbass in primis –, e infine si darebbe vita a un nuovo patto di sicurezza europea e internazionale. A ogni singolo passaggio, andrebbe verificata l’osservanza degli impegni assunti delle diverse parti, chiave per poter passare al livello successivo delle trattative.

Il chiacchiericcio sulle armi e il vincolo della deterrenza

Guerra in atto e pandemia niente affatto conclusa rendono le polemiche italiane sull’aumento delle spese militari un chiacchiericcio. Ci sarà l’ennesimo voto di fiducia chiesto da Draghi, o altra soluzione parlamentare, a fare testo e a dare il via libera all’aumento del budget militare auspicando una politica di difesa su scala europea. Intanto, Giuseppe Conte vede legittimata la sua leadership su ciò che rimane dei 5 Stelle, con il 94% nel referendum interno e con il suo alzare la voce cercando di recuperare la radicalità delle origini. Come risponderà il ministro Lugi Di Maio, che su guerra e armi marcia come un soldatino, è un dettaglio che interessa solo chi è ancora grillino.

Il problema non è perciò la precarietà degli equilibri di governo – destinati a restare tali fino alle elezioni politiche del 2023 –, quanto piuttosto l’atteggiamento politico nei confronti della guerra Russia-Ucraina. Forse l’Italia tornerà in gioco se si dovesse scegliere la linea della soluzione di Paesi garanti della neutralità e della sicurezza dell’Ucraina (il negoziato in corso in Turchia); non c’è dubbio, però, che finora il governo Draghi (come il Pd) non abbia brillato per iniziativa in campo europeo. Il presidente Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz hanno avuto maggiore protagonismo e visibilità, provando a convincere Putin alla trattativa e parlando con le parti in conflitto (grazie al ruolo avuto da Macron nell’ultimo mese, quasi sicuramente sarà lui l’inquilino riconfermato all’Eliseo nelle prossime elezioni di aprile in Francia).

5 Stelle, resa dei conti finale?

E adesso che succederà, dopo la decisione della settima sezione civile del tribunale di Napoli che azzera i vertici dei 5 Stelle? Cosa farà il fondatore del movimento, Beppe Grillo? I pentastellati sono sempre più a rischio di implosione e, dopo il pronunciamento dei giudici, lo scontro interno si sta rivelando sempre più come una lotta di potere. Ora, ai vertici dei 5 Stelle sono tornati il garante Beppe Grillo e il reggente Vito Crimi. È facile immaginare che l’esautorato Conte starà valutando le iniziative legali per tornare alla guida del partito. Di certo, il reggente Crimi dovrà garantire l’elezione di una guida collettiva (a cinque), cioè quanto decise la base del partito.

I giudici di Napoli hanno infatti dato ragione ai dissidenti dei pentastellati, rappresentati dall’avvocato Lorenzo Borrè, riconoscendo un deficit di democrazia interna nel momento in cui a capo dei 5 Stelle, nell’agosto scorso, fu eletto Giuseppe Conte. L’accusa è che non tutti gli iscritti poterono partecipare all’elezione. La decisione dei giudici napoletani arriva in un momento di forte tensione interna. Il presidente Conte aveva avvertito Luigi Di Maio: “Nei 5 Stelle nessuno è indispensabile”. E aveva precisato che, nel partito fondato da Beppe Grillo, “non sono ammesse le correnti”. Dopo la decisione del ministro degli Esteri di dimettersi dal Comitato di garanzia, proprio per avere le mani libere nel poter dire la sua sulle cose che non funzionano nel partito, Conte aveva voluto fissare dei paletti invalicabili, lasciando intuire che la battaglia interna si annunciava aspra (e che Di Maio potrebbe soccombere).

Prime indiscrezioni sul futuro del Movimento 5 Stelle

L’attenzione politica è in questi giorni tutta rivolta al destino del disegno di legge al Senato che ha come primo firmatario il deputato piddino Alessandro Zan. I grilllini, che sono abili comunicatori, attendono perciò il momento giusto per raccontare com’è finito il braccio di ferro tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte, oltre che per rendere conto intorno a quali contenuti è stata trovata la mediazione. Indiscrezioni e segnali danno però già conto di ciò che è avvenuto.

Il gruppo di sette saggi che doveva istruire la discussione ha raggiunto il risultato di salvaguardare l’unità, merito soprattutto del lavoro di mediazione di Roberto Fico, presidente della Camera, e Luigi di Maio, ministro degli Esteri. Ne ha dato notizia Vito Crimi, capo reggente provvisorio del Movimento, nell’assemblea dei gruppi parlamentari: “Ora ci sono tutte le condizioni per partire e rilanciare i 5 Stelle: piena agibilità politica del presidente del Movimento, netta distinzione tra ruoli di garanzia e ruoli di azione politica. È il momento di lasciarci alle spalle le ombre di queste settimane difficili”. Il tema pregiudiziale era infatti trovare le modalità di coabitazione tra Grillo e Conte. Il primo resterà garante “ideale”, il secondo sarà eletto presidente e avrà pieni poteri sulla linea politica del movimento.

5 Stelle, la tregua dei saggi ha poche alternative

È un bel paradosso. Il destino dei 5 Stelle è nelle mani dell’ala governista del movimento. Cioè soprattutto di Luigi di Maio (ministro degli Esteri), di Roberto Fico (presidente della Camera) e di Stefano Patuanelli (ministro delle Politiche agricole). Sono coloro che sono stati nominati “saggi” insieme al “reggente” Vito Crimi e a Ettore Licheri, Davide Crippa e Tiziana Beghin. Il loro compito è trovare la mediazione per scongiurare la scissione, data fino a qualche giorno fa per sicura. Devono perciò dare forma a statuto, carta dei valori, codice etico per sancire un rinnovato equilibrio politico. Un lavoro delicato, perché i successi dei grillini sono legati all’informalità e all’assenza di norme interne.

Il paradosso è che il movimento che aveva promesso fuoco e fiamme contro le istituzioni e il politichese, di fronte alla propria crisi, ragiona soprattutto su come creare meno problemi possibili al governo di Mario Draghi. La deflagrazione dei 5 Stelle, infatti, oltre a sancire probabilmente la fine della propria esperienza, farebbe scricchiolare l’attuale maggioranza anomala di governo in pieno “semestre bianco”, quello che precede l’elezione del presidente della Repubblica e rende impossibili elezioni anticipate.