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De Luca caccia Saviano

“Non mi vuole. Non andrò al Festival di Ravello”. Tra lo scrittore Roberto Saviano e il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, continua...

C’era una volta l’antimafia

C’era una volta l’antimafia, che si nutriva di rivolta civile – ricordate le lenzuola bianche stese sui davanzali di Palermo, all’indomani delle stragi Falcone e Borsellino? – che dava linfa al lavoro delle forze di polizia e della magistratura. Che produceva mutamenti profondi nella società, soprattutto quella meridionale.

Era minoritaria, all’inizio, l’antimafia. Peppino Impastato fu ucciso a Cinisi nel 1978, in una tragica solitudine. Riaprendo così quella catena di sangue di sindacalisti e militanti di sinistra che la mafia aveva ammazzato da Portella delle Ginestre in poi. E anche poliziotti e carabinieri, magistrati e giornalisti, furono uccisi dalla mafia perché estranei a una società sonnolenta che non vedeva la convivenza tra pezzi delle istituzioni, mafia, classi dirigenti e massonerie varie. E dunque rappresentavano un pericolo per questo sistema.

Brutta aria sulla magistratura

Finanche la procura di Milano è stata raggiunta da schizzi di fango. Prima, con la vicenda del pm Storari che aveva consegnato a Piercamillo Davigo (storica toga del pool Mani pulite, componente del Csm, oggi pensionato) verbali coperti dal segreto investigativo dell’avvocato faccendiere Amara, i quali raccontavano l’esistenza di una tela massonica che avvolgeva centri di potere non risparmiando magistrati, uomini delle istituzioni, politici. Adesso un procuratore aggiunto, Fabio De Pasquale, e il pm Spadaro, risultano indagati dalla procura di Brescia, perché nel processo sulle tangenti Eni-Nigeria nascosero delle prove utili alla difesa degli imputati.

Fango che si aggiunge ad altro fango. Che anno, il 2021! È da tanto, è vero, che la fiducia dei cittadini verso la magistratura si sta inesorabilmente riducendo. È un processo lento. Ma oggi c’è un ulteriore smottamento e si sta aprendo una voragine. Siamo al Termidoro. Dopo la rivoluzione di Mani pulite, dopo la magica stagione di ragazzi e ragazze motivati a intraprendere la carriera di magistrati dopo le stragi Falcone e Borsellino, siamo di nuovo a una magistratura opaca, con l’aggravante che assistiamo anche a una faida tra gruppi di potere interni alle toghe.

Spunta la loggia Ungheria: nuovi arresti nella vicenda dell’Ilva

E adesso che dirà il segretario del Pd Enrico Letta sull’Ilva di Taranto? In altri tempi, non poi tanto lontani, bastava una sentenza del Consiglio di Stato, o una assoluzione in tribunale, per chiudere la partita. Insomma per continuare come se nulla fosse, sia pure appellandosi alla vigilanza ambientale. Ma proprio in queste ore due vicende apparentemente scollegate tra loro potrebbero imprimere un colpo d’accelerazione al destino della più grande acciaieria d’Europa.

La procura di Potenza, infatti, ha appena ottenuto arresti in carcere, ai domiciliari e misure interdittive per una associazione criminale finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, ai tentativi di aggiustare inchieste e processi. Due i personaggi chiave: l’ex procuratore di Trani e Taranto, Carlo Maria Capristo, oggi pensionato e solo per questo non finito in carcere, e l’avvocato Piero Amara, faccendiere già agli onori della ribalta per aver raccontato dell’esistenza della loggia Ungheria, una confraternita paramassonica, di cui abbiamo parlato su “terzogiornale” in questo articolo.

Taranto, in attesa della pronuncia del Consiglio di Stato

Un sogno per molti, un incubo per altri. La grande acciaieria potrebbe chiudere i battenti. La sentenza della Corte d’assise di Taranto almeno un merito l’ha avuto. Non si può più perdere tempo, mentire, fare false promesse. Il destino della più grande acciaieria d’Europa è segnato. I giudici hanno confiscato l’area a caldo. Se anche gli altri due gradi di giudizio lo confermeranno, gli altiforni dovranno chiudere. Insomma, il ciclo integrale di Taranto dovrà andare in pensione.

Ma la svolta potrebbe arrivare prima che si compiano i tempi lunghi della giustizia. Già nei prossimi giorni il Consiglio di Stato potrebbe confermare la sentenza del Tar che ha dato ragione al sindaco della città dei due mari che ha chiesto la chiusura dell’area a caldo.

Ilva, il ritardo della politica

L’Italsider, che poi sarebbe diventata l’Ilva, era un mostro potente e immortale. La famiglia Riva, industriali del Nord, nel 1994 comprò dall’Iri di Romano Prodi l’acciaieria più grande d’Europa, che produceva dodici milioni di tonnellate di acciaio all’anno. Per loro fu un affare. E la fabbrica si impossessò della città. Riva assunse molti giovani operai, soprattutto della provincia allargata. E investì in attività finalizzate a un consenso sociale nella città.

Diecimila operai diretti e quattromila quelli delle ditte d’appalto. Sembrava un’acciaieria destinata a vivere a lungo, anche perché, fallito il sogno del quinto centro siderurgico di Gioia Tauro (1970), chiusa l’Italsider di Bagnoli (anni Ottanta), riconvertito il ciclo a freddo in Liguria (anni Novanta), rimaneva solo Taranto come acciaieria a ciclo integrale. Sembrava un destino segnato. I riflettori nazionali erano spenti su Taranto, se non quando salì alla ribalta il sindaco Giancarlo Cito, il leghista del sud.