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Brasile spaccato, ma vince Lula
“È la vittoria di un immenso movimento democratico” – ha detto Lula poco dopo avere appreso che i suoi 60.345.999 voti avevano superato i 58.206.354 andati a Bolsonaro, consegnandogli così la presidenza di un Paese mai come ora diviso e il primato di essere il più anziano capo di Stato brasiliano mai eletto. Scontata la promessa che, dal primo gennaio 2023, sarà il presidente di tutti, e non solo di coloro che lo hanno votato, Lula ha promesso una via d’uscita che riporti la pace e ricostruisca un Brasile dilaniato dall’odio, al quale si sforzerà di restituire la possibilità di vivere democraticamente. E con buona probabilità dovrà caratterizzare il suo terzo mandato mediante un approccio più centrista rispetto al passato, dovendo mediare con l’ampio schieramento che l’ha sostenuto, pur di evitare i pericoli per la democrazia brasiliana rappresentati da Bolsonaro.
“Hanno cercato di seppellirmi vivo e io sono qui per governare questo Paese in una situazione molto difficile. È ora di abbassare le armi, che non avrebbero mai dovuto essere brandite. Le armi uccidono. E noi scegliamo la vita. Credo che i principali problemi del Brasile, del mondo, dell’essere umano, possano essere risolti con il dialogo, non con la forza bruta. La ruota dell’economia tornerà a girare, con la generazione di posti di lavoro, la valorizzazione dei salari e la rinegoziazione dei debiti delle famiglie”. Queste alcune delle dichiarazioni del neopresidente, mentre i suoi sostenitori invadevano la Avenida Paulista, a San Paolo, per festeggiare l’elezione di un leader che alla sua bella età sembra ancora insostituibile. Il quale, per di più, ha vinto senza avere anticipato nella campagna quasi nulla del suo piano di governo, premiato da un voto che, prima di tutto, è stato un voto contro l’attuale presidente, il primo nella storia della democrazia brasiliana a non essere rieletto per un secondo mandato.
In Brasile Lula alla ricerca di alleanze
Come Gabriel Boric ha conquistato il Cile
Il Cile di nuovo a sinistra con Boric
Al ballottaggio per l’elezione presidenziale, il Cile ha riaffermato ieri la sua maturità democratica e respinto decisamente le nostalgie di Pinochet, inaspettatamente riaffiorate al primo turno. Smentendo la quasi totalità dei pronostici, nuovo capo dello Stato è il candidato della sinistra Gabriel Boric, 35 anni, il leader studentesco sorto dai movimenti di protesta del 2019. Quando prima giovani e giovanissimi, poi milioni di manifestanti, operai, casalinghe, impiegati pubblici, hanno invaso le piazze rivendicando maggiori diritti, miglioramenti economici e, infine, conquistato la creazione della Convención Constitucional, che sta formulando la nuova Carta costituzionale, in sostituzione di quella imposta dalla dittatura militare oltre trent’anni fa.
Boric ha ottenuto quattro milioni e 615mila suffragi (pari al 55,9% degli otto milioni e 266mila espressi), contro i tre milioni e 646mila (il 44,1%) del candidato di estrema destra, José Kast, che al primo turno lo aveva superato di 150mila voti. Su Kast – figlio di un immigrato ex ufficiale nazista della Wermacht, e fratello di un ex ministro di Pinochet, la cui dittatura apertamente rivendica – è confluita la massima parte dei sostenitori della destra e di quel 13% ricevuto al primo turno dal qualunquista Franco Parisi, una specie di candidato fantasma, che aveva svolto la propria dagli Stati Uniti, dove si è rifugiato per motivi giudiziari. Ma non sono bastati. Ed è la prima volta che il vincitore del primo turno viene sconfitto al secondo.