Il trentacinquenne Daniel Noboa ha vinto il ballottaggio delle elezioni col 52,3%, diventando il più giovane presidente della storia dell’Ecuador. Sconfitta è la ex ministra Luisa González, che al primo turno di agosto era sembrata essere la vera e unica beneficiaria di una stagione politica segnata dal fallimento di Guillermo Lasso e dal contestuale successo del “correismo” (dall’ex presidente Rafael Correa) nelle elezioni locali di febbraio. Alla fine, Luisa non ha saputo fermare la sorprendente avanzata del giovane rampollo di una famiglia che da tre generazioni è alla testa di un impero economico che, oltre alla Exportadora Bananera Noboa, spazia dalla plastica ai container, dal cartone ai fertilizzanti. Ma il vero sconfitto è appunto Correa, condannato a otto anni di carcere per tangenti durante la sua presidenza ed esule in Belgio, padre padrone del movimento Revolución ciudadana. Con il risultato di domenica 15 ottobre, Correa ha visto infatti sfumare la possibilità di tornare in patria grazie a qualche provvidenziale provvedimento in suo favore, così come può dire addio alla speranza di una nuova assemblea costituente, che elimini l’esito del referendum del 2018 che impedisce una terza candidatura. Perché, se una cosa era evidente, visto il crollo del gradimento di Lasso e il contestuale successo nelle amministrative dello scorso febbraio – quando la sua formazione ha conquistato Quito, Guayaquil e altre quarantotto città –, Correa aveva cominciato a sperare in una sua ricandidatura nel 2025, dopo la fine del mandato della sua pupilla González, che, nei suoi calcoli, gli avrebbe volentieri ceduto il posto.
Questa di Correa è la terza sconfitta di seguito. La prima è stata la scelta di candidare il suo vicepresidente, Lenín Moreno, nel 2017, che una volta preso possesso del Palacio de Carondolet, gli ha voltato le spalle. Poi c’è stata la candidatura dello scialbo Andrés Arauz, nel 2021, battuto da Lasso. La terza, la decisione di far correre Luisa González che, solo a maggio, dopo che Lasso aveva deciso la muerte cruzada con cui aveva sciolto il parlamento e indetto nuove presidenziali per evitare l’impeachment, era data per sicura vincitrice, destinata a essere la prima donna ad assurgere alla massima carica.
Daniel Noboa appartiene alla terza generazione di una famiglia il cui capostipite, Luis Adolfo, era riuscito a creare dal nulla un impero economico, sostituito dal padre Álvaro che ha ampliato l’azienda a livello internazionale, ingaggiando molteplici battaglie legali per non pagare le tasse arretrate. Non ha nociuto al neoeletto nemmeno la notizia, emersa nelle ultime ore, che lui stesso avrebbe beneficiato di affari nei paradisi fiscali. Pur diventando l’uomo più ricco del Paese, Álvaro non è riuscito a coronare il suo sogno di diventare presidente della Repubblica, obiettivo che ha tenacemente perseguito, costruendo pazientemente la sua immagine di messia dei diseredati, ricorrendo a trovate di stampo populista, come la distribuzione di dollari, e regalando computer ai suoi sostenitori. Un’immagine in qualche modo sporcata dalla necessità di difendersi dalle accuse di avere maltrattato i suoi dipendenti e di aver fatto ricorso al lavoro minorile. Nel tentativo di ampliare il potere famigliare alla sfera della politica, si è candidato senza successo per un totale di cinque volte, mancando la presidenza, in un caso, solo per due punti percentuali. Alla fine, il tenace settantatreenne Álvaro ha deciso di rinunciare a favore del figlio Daniel, il cui progetto iniziale era quello di scendere in pista nel 2025. Si spiega in tal modo la sua decisione di farsi eleggere nel 2021 all’assemblea legislativa, ma non nella formazione del padre. La fine anticipata della legislatura, voluta da Lasso, lo ha spinto ad anticipare l’esecuzione del suo progetto.
Nella campagna elettorale da poco conclusa, Daniel ha potuto approfittare del dramma dell’assassinio del candidato anticorruzione Fernando Villavicencio, a pochi giorni dal primo turno, in agosto, e del dilagare della violenza che ha causato la morte di altri cinque politici quest’anno. Da Paese tutto sommato tranquillo, l’Ecuador ha visto le morti violente quadruplicate, passando da circa sei per centomila abitanti, nel 2020, a più di venticinque quest’anno.
Per lo più sconosciuto al grande pubblico, una volta candidato alla presidenza, ha saputo offrire una buona performance nel confronto televisivo elettorale, durante il quale ha dato prova di conoscere i problemi e non è stato attaccato dai suoi avversari, che non ne avevano ancora colto la pericolosità. In tal modo, mentre il primo turno di agosto, ha visto González vincere di nove punti su tutti i contendenti con il 33% (assente Villavicencio perché morto), la vera sorpresa è stato Noboa col suo 24%. Ha fatto una campagna di video senza mordente politico sui social media, non ha dato interviste alla stampa. Gli è bastato che il voto “anti-correista” si mobilitasse da solo.
Nelle settimane che hanno preceduto il ballottaggio, è riuscito a sorpassare González, riuscendo a fare arrivare il suo messaggio di cambiamento a un elettorato preoccupato per le questioni legate all’occupazione e alla sicurezza, spaventato dal potere che il narcotraffico ha saputo consolidare negli ultimi cinque anni. Il suo messaggio economico è potuto cadere in un terreno fertile dato che, secondo i dati del governo, l’economia è stata devastata dalla pandemia, e solo il 34% degli ecuadoriani ha un’occupazione adeguata. Mentre il fallimento di Lasso, in campo economico, si spiega con il calo delle risorse petrolifere, il latitare degli investimenti stranieri e la bassa crescita, che hanno impedito di affrontare le enormi sfide sociali che aveva davanti.
Da quando la criminalità internazionale ha cominciato a operare in collaborazione con le bande locali per il controllo delle rotte della droga, i diciassette milioni di ecuadoriani hanno subito gli effetti di un’ondata di violenza senza precedenti. Al seguito della quale, decine di migliaia di persone sono state costrette a cercare scampo tentando di passare il confine tra il Messico e gli Stati Uniti, andando così a ingrossare la marea migratoria che ha travolto l’amministrazione Biden a un anno dalle presidenziali.
Pur non essendo stato il tema principale del dibattito, quello della sicurezza non poteva quindi non essere un tema importante di una insolita campagna che, dopo l’assassinio di Villavicencio, ha visto la cancellazione degli eventi in pubblico e i candidati girare con la protezione delle forze di polizia, sempre indossando giubbotti antiproiettile. Un tema su cui entrambi i candidati, Noboa e González, avevano convenuto, dichiarandosi favorevoli a investire più risorse nella polizia e a schierare l’esercito per proteggere i porti, utilizzati nel contrabbando di droga fuori dal Paese, e le prigioni in mano alla criminalità. Quello delle prigioni è un tema oltremodo scottante, sempre al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica. Recentemente, sei detenuti sono stati uccisi nel penitenziario del Litoral, il carcere più grande e affollato dell’Ecuador, in cui si sono registrati almeno tredici massacri dal 2021. In quello stabilimento, erano ospitati tredici persone ritenute in relazione con l’omicidio di Fernando Villavicencio, tra cui anche sei del gruppo di colombiani coinvolti nell’esecuzione materiale del crimine, risultati le vittime del nuovo massacro. Dai resoconti degli inquirenti, i sei sono stati impiccati per impedire loro di parlare, proprio pochi giorni dopo che gli Stati Uniti avevano offerto cinque milioni di dollari a chi avesse permesso di risalire ai mandanti del crimine.
Daniel Noboa ha promesso mano dura, e ha confermato di volere attuare un’ambiziosa riforma del sistema giudiziario e carcerario, promuovendo nel contempo investimenti in istruzione e infrastrutture pubbliche, al fine di risolvere i problemi che sono la causa del crimine. Per porre termine alla violenza nelle carceri, che ha causato più di 430 morti dal 2021, ha proposto di creare prigioni su navi, lontane dalla riva, dove poter rinchiudere i criminali più pericolosi. Una misura la cui attuazione richiederà un periodo più lungo di quello del suo attuale mandato. Mentre, tutto sommato, più realizzabile pare il ricorso all’uso della tecnologia, come i droni e i sistemi di tracciamento satellitare per arginare il traffico di droga.
L’altro tema, grazie al quale Noboa ha vinto, riguarda il problema dell’occupazione, per favorire la quale ha perfino pubblicato un modulo di domanda di lavoro sul suo sito web, e ha promesso di attrarre investimenti e di tagliare le tasse. Pensa di promuovere la creazione di posti di lavoro, soprattutto per i giovani, attraverso un piano economico basato anche sullo sviluppo tecnologico, essendo certo che i fondi privati sarebbero attirati da settori industriali come l’elettricità e il petrolio. A parte le promesse fatte in campagna elettorale, Daniel dovrà però fare i conti con un Paese economicamente al palo, fortemente indebitato a causa dell’accordo con il Fondo monetario internazionale, impegnato a ridurre il deficit attraverso tagli alla spesa pubblica, dove la tassazione sulla classe media aumenta e il mercato del lavoro è limitato. Un Paese che è, alla fine, dipendente dalle rimesse degli emigrati, e che probabilmente avrà ancora bisogno di ricorrere a un altro prestito. Per governare, avrà bisogno di un sostegno che gli permetta maggioranze specifiche nell’Assemblea nazionale, un organo di 137 membri molto frammentato, dove i suoi rivali detengono il maggior numero di seggi, anche se lontano dalla metà che darebbe loro capacità di veto.
Pur essendo espressione del mondo imprenditoriale e degli ambienti della destra politica, Daniel ha voluto distinguersi dalla potenza economica della famiglia, facendo sapere che le sue fortune personali si limitano a un milione di dollari. Quindi, pur appartenendo politicamente al campo di destra, si definisce di sinistra moderata e rispettoso dei diritti. In buona sostanza, gradisce essere percepito come un liberal, che, pur avendo attaccato il settore bancario e chiedendo un aumento della spesa sociale, difende in primo luogo la libertà di impresa. Postosi il compito di girare finalmente pagina, dopo due decenni di confronto tra il “correismo” e la destra tradizionale, si è sforzato di apparire come il loro superamento: un aspetto che, assieme alle misure draconiane in termini di sicurezza, ha qualche tratto in comune con Bukele (vedi qui).
In campagna elettorale, ha evitato di attaccare Correa, cercando, semmai, di farlo apparire come il passato definitivamente alle spalle. La scelta ha avuto successo, al punto che la stessa Luisa González, che pure all’ex presidente deve candidatura e autorevolezza, per il ballottaggio ha dovuto prendere le distanze da lui, nel tentativo di raccattare i voti anche di coloro che del tempo di Correa ne hanno abbastanza. Alla fine dei conti, Daniel ha vinto perché è riuscito ad apparire come il nuovo, come la speranza che il Paese aveva di cambiare, anche rispetto alla narrativa politica novecentesca di suo padre Álvaro, secondo il quale Correa sarebbe un pericoloso comunista.
Pur non essendosi sbilanciato sui temi sociali, Noboa è sembrato contraddirsi nella scelta della sua vice, caduta sulla figura, più tradizionalmente di destra, di Verónica Abad, ammiratrice di Donald Trump e di Jair Bolsonaro, contraria all’aborto, al femminismo e ai diritti di Lgbtq+, che forse aveva il compito di controbilanciare la sua immagine moderna e progressista presso la destra più retriva e bigotta. Inoltre, vista l’estesa rete degli affari di famiglia, non ha potuto evitare le critiche di coloro che temono che vivrà il suo mandato in un perenne conflitto di interessi.
È nato a Guayaquil, sulla costa, e ha una laurea in Business Administration alla New York University, con un master in Governance e comunicazione pubblica. Ha iniziato la sua vita politica nel 2021, quando è stato eletto all’Assemblea nazionale, dove è stato presidente della Commissione per lo sviluppo economico, produttivo e la microimpresa. Si è presentato per Acción democrática nacional, unaformazione che include Pueblo, igualdad y democracia, partito fondato da Arturo Moreno, fratello dell’ex presidente Lenín Moreno, e il partito Mover, precedentemente noto come Alianza País, di cui faceva parte anche l’ex presidente Correa. La sua candidatura è stata sostenuta da tre donne: dalla moglie venticinquenne, l’influencer Lavinia Valbonesi, con la quale carica molti video sui social media; dalla madre, il medico che in tutto il Paese si è spesa per fornire assistenza sanitaria ai più poveri, la donna che aveva già sostenuto Álvaro nella sua avventura politica; e sua zia, Isabel Noboa, una delle donne più note nel mondo degli affari ecuadoriano.
Il suo governo opererà solo per sedici mesi, fino alla scadenza naturale del mandato che era di Lasso; poi si tornerà a votare. Un periodo troppo breve per risolvere la grave crisi che vive l’Ecuador, dandorisposte a chi si attende la fine della violenza, sia essa criminale o politica, e nuove opportunità di sviluppo. Un mandato troppo breve anche per proporre una riforma fiscale che sembra necessaria. Il governo affronterà un deficit di cinquemila milioni di dollari alla fine di quest’anno, quando l’economia crescerà solo dello 0,8%. Gli esperti propongono di aumentare l’Iva e di toccare il sussidio per il carburante, in cui il Paese investe 3.500 milioni, quasi la stessa somma che destina alla salute e all’istruzione. Una questione, questa, che in passato qualche suo predecessore ha già cercato di toccare, scatenando la rivolta dei movimenti indigeni, e battendo in retromarcia. In definitiva, Noboa ha fatto confluire su di lui il rifiuto prodotto da Correa, con il cui movimento, a dire il vero, non ha un cattivo rapporto. Daniel è infatti una di quelle persone che riescono a navigare in qualsiasi acqua. Compresa in quella di Lasso, con il quale ha vissuto un’epoca di approcci e distanziamenti, che rendono difficile etichettarlo.
A suo vantaggio, Daniel possiede una dose di carisma che gli consente di esercitare una leadership forte, che è poi un altro dei motivi, forse il più importante, per cui è stato votato. Sa che il breve tempo in cui dovrà governare dovrà essere il trampolino di lancio per un secondo mandato di quattro anni. Un obiettivo che, se eviterà di cadere in grossolani errori, è a portata di mano, riducendo al lumicino le speranze di riscossa dei seguaci di Correa, che la cocente sconfitta subita dovrebbe portare a una profonda riflessione, vista la serie di insuccessi accumulata. Parallelamente a quello che sta accadendo in queste ore in Bolivia (vedi qui), dove Evo Morales, l’altro campione di quell’enorme occasione sprecata che è stato il “socialismo del Ventunesimo secolo”, punta a ricandidarsi nel 2025, pare infatti difficile pensare che Correa si faccia finalmente da parte, sbloccando, con il suo passo indietro, quel doloroso e necessario processo che potrebbe saldare le ragioni della sinistra urbana con quelle dei movimenti indigeni, critici nei confronti dei governi di Rafael, accusato di corruzione e di politiche estrattiviste, poco rispettose dell’ambiente.
Per quanto riguarda gli indigeni, dal primo turno è emerso un messaggio apparentemente contraddittorio: un flop della lista di Pachakutik di Yaku Perez, che nel 2021, per un soffio, non è andato al ballottaggio, ma che in queste ultime elezioni non era appoggiato dalla potente Confederazione delle nazionalità indigene (Conaie); e un clamoroso successo su alcuni referendum di argomento ambientale. Bisognerà attendere, nei prossimi giorni, un’attenta analisi del voto di domenica 15 ottobre per capire se il Paese si è consegnato, nella sua maggioranza, a Noboa, o se la sua vittoria si deve più probabilmente alle divisioni delle forze che, con differenti sfumature, si ispirano alla sinistra: un’area che, alla luce di quanto è accaduto, necessita di una improcrastinabile rifondazione.