La sorpresa non c’è stata e Bola Ahmed Tinubu, esponente dell’ All Progressives Congress (Apc) il partito al potere, è il nuovo presidente della Nigeria. Le elezioni del 25 febbraio hanno suscitato nel Paese un forte interesse, perché, per la prima volta dal ritorno alla democrazia nel 1999, l’esito si annunciava incerto, anche per il complesso sistema elettorale dovuto alla natura federale dello Stato nigeriano. Per vincere, il candidato deve ottenere almeno il 25% dei voti nei due terzi dei trentasei Stati della federazione.
Su diciotto candidati, era apparso dai sondaggi che la sfida si sarebbe giocata tra tre principali contendenti: Bola Tinubu, 70 anni, musulmano e di etnia yoruba del sudovest, con una lunga carriera alle spalle, già governatore dello Stato di Lagos (1999-2007); Atiku Abubakar, 76 anni, del Partito democratico popolare (Pdp), anche lui musulmano ma di etnia fulani del nordest, vicepresidente della Nigeria dal 1999 al 2007, e sfortunato concorrente alle presidenziali, con questo fanno sei tentativi falliti; infine, l’outsider Peter Obi, 61 anni, del Labour party (Lp), cristiano-cattolico,di etnia igbo del sudest, molto seguito sui social e dai giovani cristiani, tra i quali aveva suscitato un certo entusiasmo e nuove speranze, e comunque la vera novità politica di queste elezioni, anche perché la sua vittoria avrebbe scardinato il bipolarismo che regge il Paese.
Tinubu è stato eletto al primo turno, e ancora prima dei risultati sono fioccate le accuse di brogli e di manipolazioni. Ma i dati parziali e contestati non hanno impedito alla Commissione elettorale indipendente (Inec) di proclamare vincitore Tinubu con 8,8 milioni di voti (35%), davanti a Abubakar con 7 milioni (28%) e Obi con 6,1 milioni di voti (24%). Il tasso di partecipazione è stato particolarmente basso, il 27% dei circa 93,5 milioni di elettori iscritti.
Bola Tinubu succede a Muhammadu Buhari, presidente per due mandati dal 2015 e che, stando alla Costituzione, non poteva più ricandidarsi. Pur dello stesso partito di Buhari, Tinubu realizza un’alternanza tra il nord e il sud del Paese, poiché Buhari, un fulani, è del nordest; inoltre è avvenuta pacificamente, come accade ininterrottamente dal 1999, dopo gli anni dei golpe e dei militari. In una federazione attraversata da forti tensioni etniche e religiose, questa alternanza – una consuetudine non scritta ma finora rispettata – è senza dubbio un elemento positivo, tanto più che le sfide che il neopresidente dovrà affrontare sono immense.
Per capire l’importanza di queste elezioni, va ricordato che la Nigeria occupa un posto di rilievo in Africa e non solo. È il Paese più popoloso del continente (oltre 220 milioni di abitanti) e il sesto nel mondo; è un Paese giovane e apparentemente ricco, perché ha il Pil più elevato dell’Africa, ma solo grazie al petrolio e al gas. Dunque la sua stabilità politica può giocare un ruolo positivo nel contesto africano del momento. La sua fragilità sociale ed economica può invece costituire un rischio, non solo per il Paese.
Non è un caso che abbiamo identificato i principali candidati alla presidenza con l’appartenenza a una etnia e a una religione. Il mosaico etnico è infatti molto frastagliato, con più di 250 etnie, anche se i due terzi della popolazione sono concentrati nelle tre principali: haussa, yoruba e igbo. Gli igbo richiamano il Biafra: sono quelli che, alla fine degli anni Sessanta, condussero a una guerra di secessione sconfitta da una repressione feroce, immortalata da immagini di fame e di morte che fecero il giro del mondo. Il Biafra, smembrato tra più Stati da quasi una decina d’anni, è nuovamente agitato da un movimento indipendentista, il Popolo indigeno del Biafra (Ipob), messo al bando per terrorismo dal governo di Abuja.
Quanto alle religioni, i musulmani sono circa la metà della popolazione; poco meno i cristiani, con una piccola percentuale di seguaci delle religioni tradizionali. La vittoria del candidato cristiano, Peter Obi, avrebbe costituito non una novità nella storia politica del Paese ma un fatto di rilievo, tanto più che da diversi anni il nordest della Nigeria ha a che fare con gli attacchi degli estremisti islamici di Boko Haram, contro i cristiani e i musulmani che non si piegano al loro fanatismo, nell’indifferenza del governo centrale. Si calcola che oltre cinquemila cristiani siano stati uccisi dai terroristi jihadisti, ma le vittime sono in tutto quarantamila, senza contare le persone scomparse, stimate a circa venticinquemila di cui quattordicimila minori, e circa due milioni di sfollati interni. Il rapimento delle 276 ragazze da una scuola di Chibock, da parte di Boko Haram nel 2014, è l’episodio più conosciuto mondialmente, ma le violenze si susseguono a ritmo quotidiano.
Alla violenza di religione, si aggiunge quella delle bande armate di criminali che scorrazzano nel Paese. Contribuiscono all’insicurezza i metodi brutali della polizia contro le manifestazioni pacifiche, tanto da suscitare un movimento di protesta, #EndSARS (End Special Anti-Robbery Squad), contro le esazioni delle squadre speciali di polizia. Il movimento di protesta contro la violenza e la corruzione, nato tre anni fa su Twitter, costituisce il fenomeno politico e sociale più nuovo e rilevante nel panorama politico. La violenza è alimentata anche dalla corruzione, una vera piaga del Paese. Secondo Transparency International, la Nigeria è al 150° posto su 180 Paesi considerati, per indice di percezione della corruzione. Le sue leggi e le forze di polizia, anche quando dovrebbero proteggere chi è vittima o comunque denuncia, in realtà non tutelano affatto.
La Nigeria è un Paese estremamente povero, malgrado sia il più “ricco” dell’Africa, ma solo perché drogato dall’esportazione di petrolio e di gas, che a sua volta alimenta la corruzione. Un rapporto della Banca mondiale, diffuso a dicembre scorso, disegna un ritratto impietoso della situazione economica e sociale. Oltre novantacinque milioni di nigeriani vivono al di sotto della soglia di povertà; l’inflazione, che viaggia al 20%, negli ultimi mesi ha aggiunto cinque nuovi milioni di poveri. I salari reali sono in diminuzione, e la disoccupazione è vicina al 30%.
Se si aggiunge che le casse dello Stato sono allo stremo, questo quadro ci restituisce l’immenso compito che il nuovo presidente ha di fronte a sé, dopo almeno un decennio di fallimenti della politica. Tinubu ha voluto rassicurare i nigeriani e anche le forze di opposizione, cui ha teso la mano per lavorare insieme. I due principali sconfitti, però, non accettano i risultati e si ripropongono di continuare la battaglia elettorale attraverso i ricorsi. Il gigante africano rimane per il momento affacciato su un baratro.