Marcello Dell’Utri non parla, non parlerà mai. Ieri (martedì 18 luglio) la procura di Firenze lo aspettava, per sentirlo nell’ambito dell’inchiesta sui mandanti delle stragi del 1993 in cui l’ex senatore è indagato – insieme con Silvio Berlusconi prima della sua dipartita. Ma Dell’Utri ha fatto sapere, tramite il suo avvocato Francesco Centonze, di volersi avvalere della facoltà di non rispondere.
La scorsa settimana gli investigatori della Dia di Firenze e di Milano avevano perquisito la sua abitazione, sempre su disposizione della procura di Firenze, sequestrando anche alcuni materiali, come riportato da “Repubblica”, non risparmiando i suoi uffici in via Senato a Milano. Dunque, dopo anni e anni, e due inchieste già archiviate, i procuratori Turco e Tescaroli stanno rilanciando le attività investigative attorno alla ipotesi di un ruolo di Dell’Utri (e di Berlusconi) nei mesi dell’assalto stragista del 1992-93. Non sappiamo ancora quale sia il punto di forza dell’accusa, conosciamo solo il quadro generale: secondo la procura di Firenze, da quel che si è appreso in questi giorni, Dell’Utri avrebbe istigato e sollecitato il boss Graviano a organizzare e attuare la campagna stragista per contribuire a creare le condizioni per un’affermazione di Forza Italia, il nuovo partito fondato da Berlusconi (formalmente nel luglio ’93, la “discesa in campo” arrivò nel gennaio successivo), con il fattivo contribuito di Dell’Utri. L’accordo consisteva più o meno nello scambio tra la realizzazione delle stragi, da parte di Cosa nostra, e, dopo la vittoria elettorale di Berlusconi, che si sarebbe imposto a suon di bombe, la promessa da parte di Dell’Utri, tramite Berlusconi, di indirizzare la politica legislativa del governo verso provvedimenti favorevoli a Cosa nostra in tema di trattamento carcerario, collaboratori di giustizia e sequestro di patrimoni. I boss mafiosi si illusero, dunque, di avere trovato di nuovo il loro partito delle “vacche grasse”, come lo era stata la Dc sin dalla nascita della Repubblica: non avevano fatto i conti con la fine della guerra fredda e, forse (se verrà provato), con la spericolatezza della coppia di amici, Marcello e Silvio.
Sulle terribili stragi del ’93 conosciamo molto per le dichiarazioni dei pentiti di mafia, ma non tutto. Mancano molti esecutori materiali, le modalità d’individuazione degli obiettivi: nessuno può ragionevolmente credere che sia stata un’autonoma scelta dei Graviano e dei loro collaboratori, fedeli, spietati, ma non colti da conoscere il Pac di Milano (il Padiglione di arte contemporanea), la Torre delle Pulci di Firenze, la chiesa del Velabro. Non sappiamo chi suggerì di rivendicarle (non era nello stile della mafia) utilizzando la denominazione della Falange armata – che ne sapevano i mafiosi, criminali con i loro modi, di questa roba da terroristi professionali?
Tutto questo rende il quadro delle stragi incerto ma, da alcuni tasselli – e, secondo gli inquirenti fiorentini, si può sostenere ragionevolmente che l’attacco destabilizzante puntava a indebolire il governo Ciampi, allora alla guida del Paese –, era volto a diffondere il panico e la paura tra i cittadini, in modo da favorire l’affermazione del progetto politico di Berlusconi e Dell’Utri, costruendo le condizioni di ostacolo per l’avvento di un governo progressista. Il che non era così impossibile, vista la forza d’urto delle campagne di rinnovamento della classe dirigente delle grandi città, dove vinsero sindaci che annunciavano aria nuova e speranze di riforma del Paese, che sembravano fino ad allora smarrite.
Il patto Dell’Utri-Berlusconi non nasce del resto lì, come abbiamo già raccontato (vedi qui). È stato così incredibilmente forte che, in punto di morte, Silvio ha lasciato una montagna di denaro all’amico: quei trenta milioni che avrebbero provocato in Marcello un lunghissimo pianto di commozione.
Naturalmente, l’azione dei pm fiorentini è irta di ostacoli, al di là della difficoltà dell’inchiesta stessa. Nel senso che si muove in un ambiente politico completamente, chiaramente e pubblicamente ostile. Marina Berlusconi ha difeso il padre con una lettera affidata a “Il Giornale”, nella quale sostiene la tesi, non nuova, dell’accanimento giudiziario: ci sta, è la figliola. Anche se si è spinta oltre, parlando di ‘teoremi di pm intoccabili’, facendo intendere che vadano toccati. La signora non ha inteso commentare, ovvio, la sentenza della Cassazione che ha definitivamente provato il ruolo di intermediario svolto da Dell’Utri tra Cosa nostra palermitana e la Fininvest di suo padre.
La difesa di Dell’Utri parla di tesi del tutto incredibile e fantasiosa, basata su carte già ampiamente esaminate dalle autorità giudiziarie negli ultimi trent’anni: ma l’avvocato è pagato per difendere il suo assistito, ci sta. Si può perdonare anche la forzatura di avere evocato la violazione del segreto istruttorio. Pura fantasia, ma ogni difesa ha diritto ai suoi argomenti per strampalati che siano.
Meno comprensibile e naturale è la difesa d’ufficio fatta dalla destra con attacchi minacciosi contro l’iniziativa giudiziaria, una interrogazione che chiede l’invio di ispettori presso la procura fiorentina – alla quale non è stata data risposta, si attendono evoluzioni – e l’invocazione di una riforma della giustizia che possa definitivamente impedire a ogni magistratura di toccare la politica. Invocando, direttamente, la fine dello Stato di diritto pur di salvaguardare se stessa.