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Scuola, il miglior contratto possibile?

124 euro (lordi) in più. Ma gli stipendi degli insegnanti italiani restano più bassi della media europea

19 Luglio 2023 Stefania Tirini  355

Dopo cinque anni arriva il nuovo contratto: 124 euro (lordi) in più per i docenti. Il ministro dell’Istruzione (e del merito) afferma che questo è il miglior contratto sin qui realizzato. L’aumento confermerebbe quello che taluni sostengono da sempre: molti docenti sono innamorati solo dello stipendio. E che stipendio! Ma la questione non è se è buono o no questo contratto. Proviamo a capire perché gli stipendi degli insegnanti italiani, ben al di sotto della media europea, sono sempre troppo bassi. Proviamo a entrare nella materia viva, così da fornire al lettore utili elementi per comprendere i fatti. O almeno per farsi un’idea.

Il docente, e in generale lo studioso, cioè coloro che permettono a un certo patrimonio culturale di esistere, documentandone l’utilità e il valore, educando gli altri al suo “consumo”, diventano dei media insostituibili, il cui costo per la pubblica amministrazione è ammortizzato da quello che si può chiamare il mercato della fruizione.

Il professor Walter Santagata, massimo esperto italiano di Economia della cultura, scrisse molti anni fa, che “nei fatti, l’impostazione tradizionale, che si concentra sulle politiche di welfare e sulla giustificazione dell’intervento pubblico in campo culturale, comporta una sopravvalutazione delle politiche di conservazione a scapito di quelle di produzione di cultura”. A questo punto, ci chiediamo: qual è il “valore” dell’insegnante di storia e filosofia dei licei, che educa lo studente circa la storia di una grande opera e le dinamiche che l’hanno resa possibile? E qual è il suo ruolo all’interno della relazione tra materia prima, tempo e risultato operativo, che rappresentano i tre fattori funzionali entro cui si sviluppano l’economia e il benessere di un Paese?

Il sintagma economia della cultura è quasi del tutto legato ai musei, ai parchi archeologici, alle gallerie: la sua esplicazione semantica non contempla affatto gli interpreti principali della cultura attiva, gli uomini che la producono in una certa unità di tempo, facendo guadagnare alla collettività il cosiddetto risultato. Bisognerebbe intendersi sul concetto di cultura e, in particolare, su quello di “cultura utile”. Se la moda è cultura, se il cinema è cultura, allora sembra davvero difficile che il tenore di vita di un designer, di uno stilista, di un attore, e soprattutto la loro capacità produttiva, possano essere paragonati con quelli di un professore o di un ricercatore. Allo stesso modo, avvalendoci di questo driver comparativo, come stimiamo la produttività di una cantante lirica che calca i palcoscenici, interpretando ora la Carmen ora la Traviata, dopo avere dedicato parecchi anni alla formazione e continuando, giocoforza, a studiare e a perfezionarsi? E, ancora, cosa dire del teatro, cioè di attori e registi spesso relegati ai margini della dignità di sopravvivenza?

L’insegnante di liceo, consultando le tabelle della Cgil, percepisce, a inizio carriera, € 1.576,00 netti, mentre, a fine carriera, € 2.184,00. Dunque: se si è in una famiglia monoreddito, e si paga un normalissimo affitto mensile o un mutuo, si è in condizioni di povertà relativa, pur avendo dedicato una vita agli studi. E non è necessario disturbare gli esperti dell’Istat per venirne a capo. In sintesi, in Italia, chi vive d’intelletto, di studio e di ricerca, vive di stenti e, talvolta, muore di fame.

Un ragionamento elementare ci spinge a qualche deduzione: se studiamo l’economia o la chimica o la matematica, e la nostra attività si trasforma nell’utile di una qualche azienda, allora il nostro ruolo nella società è riconosciuto e ricompensato; diversamente, se studiamo le stesse discipline, per insegnarle a chi permetterà a qualche azienda di generare utili, siamo considerati come una parte incidentale e poco rilevante. In sostanza, si ignora totalmente il vero motore del ciclo produttivo, quello della conoscenza. Eppure, non esisterebbe produzione, come non esisterebbero economia aziendale e Pil, in assenza di coloro che, studiando incessantemente, istruiscono concretamente chi poi appare sulla scena economica. A questo punto, se è vero il ragionamento, in questo tragico mondo alla rovescia che abbiamo costruito, qualcosa nel passaggio di consegne fra generazioni non funziona. Qualcosa va storto.

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