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Ancora sul “Ruby ter”: il desiderio berlusconiano (di vendetta)

I postumi dell’assoluzione di Silvio Berlusconi e delle sue ospiti alle “cene eleganti” dispiegheranno nel tempo il loro potenziale velenoso. C’è solo da aspettare...

“Ruby ter”: ma il sexygate accadde davvero

È finito tutto “a puttane”, per dirla con un’espressione poco elegante ma che va al sodo. Il processo “Ruby ter”, nato nel 2015 per...

Cospito e Berlusconi, un unico canovaccio

Il ventennio berlusconiano ci aveva lasciato un Paese stremato dopo un costante e prolungato terremoto che, in quegli anni Novanta e nel primo decennio del nuovo secolo, aveva minato alle fondamenta i valori della nostra Carta costituzionale. Nell’era berlusconiana si è abbassata sempre di più l’asticella della moralità pubblica, ed è diventata abnorme l’invasività del conflitto d’interessi. Quello di Berlusconi si è tradotto nella capacità di condizionare e modificare il sistema di regole e di leggi. Ricordate la depenalizzazione del falso in bilancio o la legge Cirielli che allungava o riduceva a fisarmonica i tempi della prescrizione?

Oggi il tribunale di Milano ha assolto Silvio Berlusconi per la vicenda delle “olgettine”, perché le ragazze dovevano essere sentite come indagate di reato connesso, quindi potevano anche mentire o fare scena muta, e non come testimoni. Il Cavaliere è stato “riabilitato” dai suoi, e da una propaganda che lo ha proposto come un martire che ha vissuto un calvario decennale, che lo ha visto perseguitato dai magistrati. Il fatto che, da Parigi, nel corso di una visita istituzionale, Berlusconi avesse chiamato la questura di Milano per far rilasciare la “nipote di Mubarak” per evitare un incidente diplomatico, e avesse mandato in questura la sua “consigliera ministeriale”, Nicole Minetti, a prelevare la minorenne che “sparlava” delle serate ad Arcore, non vuol dire nulla secondo loro.

“Ruby ter”e il Cavalierato

Alla vigilia della sentenza del processo “Ruby ter”, nel quale la procura della Repubblica di Milano ha chiesto sei anni di reclusione per Silvio...

Una sconfitta che dovrebbe far ritornare a sognare

Che botta. Un terremoto. Ci fu una copertina del “manifesto”, il giorno del trionfo di Berlusconi, quasi trent’anni fa. Fondo nero, lampadina al centro di una stanza. Lampo di luce e un sinistro “click”. Come dire, “adda passà ’a nuttata”. Poco tempo dopo quel voto, con il suo buio, ci fu un incoraggiante 25 aprile a Milano. Ecco, la sconfitta elettorale di domenica e lunedì, in un quarto dell’Italia (Lombardia e Lazio), lascia più solo quel popolo indomito che, nonostante tutto, in questi anni ha combattuto per riaffermare valori e politiche di un fronte progressista, di sinistra, popolare e cattolico-democratico. E che ha tenuto accesa la fiammella della solidarietà e delle politiche inclusive del welfare.

Tutto questo oggi scricchiola e domani forse non ci sarà più. Dispiace profondamente dovere riconoscere l’onda alta di Giorgia Meloni che, dopo quattro mesi, rischia di trasformarsi in uno tsunami che potrebbe cancellare la storia repubblicana nata dalla Resistenza e dalla sconfitta del nazismo e del fascismo. Che ci porta fuori dall’alveo dell’Europa degli Spinelli, dei Brandt, dei Mitterrand che si sono susseguiti nel tempo. Oggi il nostro orizzonte sembra essere Visegrad, mentre si rinsalda l’asse Parigi-Berlino. Sempre di più filoatlantisti, e sempre più giustizialisti con i deboli e accondiscendenti con i potenti.

Qualche riflessione sul fenomeno mafioso

Il nostro Guido Ruotolo, in un articolo del 19 luglio 2021, riferisce di un libro pubblicato da Michele Santoro e da lui stesso (vedi qui), che intende offrire una ricostruzione della strage di via D'Amelio, a Palermo, molto diversa da quella diventata nel tempo dominante: non ci sarebbe stato un uomo dei servizi segreti sul luogo dell'attentato a Borsellino, ma un semplice "picciotto" scambiato per un agente. Per conseguenza, gran parte della dietrologia che si è fatta e si va facendo intorno a quel caso (incentrata, com'è noto, sulla scomparsa della famosa "agenda rossa" del magistrato palermitano) sarebbe frutto di fantasia, la strage del 19 luglio 1992 essendo un delitto di mafia, privo di apporti "esterni". Chi scrive non ha particolari elementi di giudizio per sposare una versione dei fatti o un'altra. È fuor di dubbio, però, che nel caso fosse credibile la ricostruzione fornita da Ruotolo e Santoro, basata sulle dichiarazioni a loro rese dal "pentito" Avola, ciò non muterebbe la sostanza, il senso complessivo del discorso circa la mafia come un fenomeno criminale che ha potuto giovarsi, nel corso della storia dell'Italia repubblicana, di una molteplicità di appoggi e collusioni nelle istituzioni e nella politica.

La circostanza che Matteo Messina Denaro sia stato catturato ormai ammalato, al termine di una trentennale latitanza, può servire come una conferma della tesi intorno alla ramificazione dei sostegni di cui godono i boss mafiosi. Potrebbe trattarsi non soltanto, e non principalmente, di un tessuto culturale siciliano che fungerebbe da protezione per un certo ambiente criminale; non sarebbe, cioè, una presunta antropologia locale – l'impasto di arcaismo e modernità tipico del Mezzogiorno d'Italia, con la sua concezione omertosa, familistico-individualista, della vita sociale – alla base delle coperture mafiose, ma qualcosa di più specifico, che attiene alla stessa "storia naturale" del potere in Italia. Siamo in effetti nel Paese delle trame e dei misteri. Nulla di paragonabile, in Europa, alla vicenda italiana: quale altro Paese, per dirne una, ha dovuto subire una minaccia di colpo di Stato fin dall'apertura progressista del primo centrosinistra, negli anni Sessanta, per avere osato mettere in discussione – in particolare con il tentativo di una legge urbanistica sui suoli pubblici – l'assetto proprietario e di potere tradizionale? E dove altro si è mai visto un capo dello Stato (Antonio Segni) coinvolto nell'organizzazione del pre-golpe?

La lezione di Brasilia

La prima osservazione da fare su ciò che è avvenuto a Brasilia, domenica 8 gennaio, riguarda il nesso con quanto avvenne negli Stati Uniti il 6 gennaio 2021. Se questo episodio, con il suo golpismo, poteva essere letto (vedi qui) come un caso di sudamericanizzazione della politica nordamericana, l’attacco della folla bolsonarista alle istituzioni democratiche brasiliane è indice, viceversa, della ripresa in Sudamerica di un populismo di destra che va trasformandosi in movimento reazionario di massa. Lo schema appare ormai collaudato: si comincia, fin da molto prima delle elezioni, ad agitare lo spettro del risultato elettorale truccato (vedi qui), e, una volta perse le elezioni di misura (recuperando in parte il distacco anche grazie a questo tipo di propaganda), si passa alla contestazione aperta dell’esito elettorale, gettando un’ombra sulla democrazia in quanto tale e lanciando una mobilitazione prolungata, che acquista poi un carattere insurrezionale. Se di golpismo si tratta, lo è di un genere diverso rispetto a quello che avevamo conosciuto nella seconda metà del Novecento: non il classico colpo di Stato militare, ma la creazione di un crescente stato di tensione. In Brasile però – e ciò rende la cosa molto più preoccupante di quanto accadde a Capitol Hill – la tensione è volta a produrre le condizioni di un pronunciamento militare (Bolsonaro stesso è un ex capitano), mediante quella che, nella conversazione di Mezza con Bivar (vedi qui), è giustamente definita una strategia del caos.

Fin qui le forze armate brasiliane si sono attenute, nell’insieme, a una lealtà democratica per minare la quale è stato organizzato l’attacco alle istituzioni. Lo stesso non può dirsi di una parte delle forze di polizia, la cui compiacenza nei confronti dei devastatori è apparsa invece chiara. Lula, del resto, ha reagito nell’unico modo che gli era possibile: avocando allo Stato federale il controllo di un ordine pubblico che sarebbe spettato alle autorità di Brasilia difendere. La sua è stata una pronta controffensiva. Ma resta la domanda: che cosa potrà accadere nelle prossime settimane e nei prossimi mesi? La lezione che viene dal Brasile dice che lo Stato democratico ha certamente gli strumenti legali per debellare i conati di fascismo (un paragone con quanto accaduto in Europa negli anni Venti e Trenta del Novecento può essere stabilito, pur con i necessari distinguo), ma la questione di fondo è: su quali forze sociali e politiche ci si appoggia?

Previsioni sulla legislatura che sta per aprirsi

È piuttosto improbabile che il governo di Giorgia Meloni riesca a durare cinque anni e a condurre a termine la diciannovesima legislatura repubblicana. Su questo, come si sa, puntano tutto gli improvvisatori Calenda e Renzi per potere venir fuori con il loro “ecco, l’avevamo detto noi!”. Del resto Renzi è un consumato playmaker di giochini parlamentari: nella legislatura appena trascorsa ha reso possibile il governo Conte 1 (quello dei grillini con la Lega) grazie al suo intransigente non possumus, salvo poi transigere l’anno seguente alleandosi proprio con i grillini (il Conte 2), provocando una scissione nel gruppo del Pd, e diventando così l’ago della bilancia al Senato. Il che gli ha permesso di affossare Conte tirando fuori dal cappello Draghi (diventato poi il beniamino anche di Letta), secondo i desiderata della Confindustria e di altri. Insomma Renzi, e Calenda con lui, sono i signori delle “larghe intese”. Peccato che con il loro 8% scarso alle elezioni, con una ventina di deputati e solo nove senatori, non siano determinanti da nessuna parte. Sarà per la prossima volta.

Il pallino di questa legislatura è nelle mani di Berlusconi (almeno finché si trascinerà in vita). Come avevamo scritto qui, d’altronde, Giorgia Meloni è postfascista non meno che postberlusconiana; anzi più la seconda cosa che la prima, a dire il vero. Nel prefisso “post-” sono impliciti alcuni dei tratti di quello che c’era in precedenza: se l’estrema destra europea ricicla alcuni degli elementi dei fascismi storici, ciò non vuol dire che non innovi anche un po’ (si pensi, per dirne una, al “femminismo” di Meloni, alla sua decisione nell’affermarsi, qualcosa di sconosciuto ai tempi di Mussolini). In modo analogo, il governo Meloni sarà differente dai governi Berlusconi del passato: ma ne sarà anche, sotto più di un profilo, la prosecuzione. Il berlusconismo può essere camaleontico – cioè una cosa e il suo contrario – almeno quanto seppe esserlo il fascismo: quel populismo mediatico, che sdoganò i vecchi arnesi del Movimento sociale per i propri interessi più aziendali che politici (nel 1994), può ergersi adesso a difensore di una moderazione “europeista”.

Elezioni… e dopo? Il “destracentro”

Il tempo è qualcosa di insolitamente lungo, diceva un poeta. In esso le cose a volte tornano in forme apparentemente simili, ma che non sono mai esattamente le stesse. È questo il caso del “centrodestra” in Italia, che ricompare proprio mentre si profila una delle più concitate e brevi tornate elettorali della storia della Repubblica. Una tornata in cui sembra che i giochi siano in buona parte già fatti: secondo le stime dell’Istituto Cattaneo, certo indicative e discutibili, con il sistema elettorale in vigore l’alleanza tra berlusconiani, leghisti e postfascisti vincerà e forse stravincerà. Per la sinistra potrebbe essere il capolinea, cui poco vale l’inserimento nelle liste di fuoriusciti ambigui, non graditi alla base, reclutati sul campo in extremis, in una estenuante quanto impossibile rincorsa al centro.

Il gioco delle alleanze è obbligato, perché il sistema impone coalizioni il più possibile ampie, vista la riduzione del numero dei parlamentari e il conseguente ampliamento territoriale delle circoscrizioni; ma di fronte allo spettacolo offerto da “partiti agglutinanti” (come li ha efficacemente definiti il giornalista Simone Spetia), risulta difficile sottrarsi alla sensazione di una sorta di finale di partita, di un’atmosfera da fine di un’epoca. Quella che in ogni caso sembra destinata a concludersi è la parabola del berlusconismo, di cui le prossime elezioni potrebbero rappresentare l’ultimo atto. La scelta operata dall’ottantacinquenne Silvio di schierarsi con le destre estreme appare un coup de theatre per tornare sulla scena. L’accordo elettorale pare preveda che in caso di vittoria sarebbe lui a diventare presidente del Senato. Berlusconi ufficialmente smentisce, ma la prospettiva di poter giocare un ruolo nuovamente di primo piano ha probabilmente determinato la sua scelta di imbarcarsi sulla nave delle elezioni anticipate.

Le illusioni di Letta

Di fronte alla direzione nazionale del Pd, il 26 luglio, Enrico Letta ha detto delle cose fuori dalla realtà. Il segretario vuole illudere e probabilmente autoilludersi. Anzitutto non è vero che con questa legge elettorale non si possa arrivare a una sorta di pareggio. Nel 2018, con oltre il 32% dei voti e una maggioranza relativa sia alla Camera sia al Senato, il Movimento 5 Stelle poté dire di essere arrivato primo, ma ebbe bisogno di costruire maggioranze a destra e poi a sinistra per andare al governo. Non era esattamente un pareggio, ma qualcosa che gli assomigliava. E, visto che Letta ha imperniato tutto il suo discorso su “o noi o Meloni”, nulla vieta che, con un distacco minimo a favore della lista del Pd o di quella di Fratelli d’Italia per il raggiungimento della palma del primo posto, la differenza possa essere esile al punto che si possa parlare di un pareggio.

Di più, con un vantaggio sui 5 Stelle di ben quaranta deputati e di quasi trenta senatori, nel 2018 il cartello delle destre (identico a quello che si presenta oggi) restò parecchio lontano dalla maggioranza assoluta alla Camera e al Senato, tanto da non potere, pur con quei numeri, proporre nulla nel senso di un governo suo proprio. La legge elettorale, che è un misto di proporzionale e di maggioritario, è congegnata in modo tale che il risultato più probabile che ne possa venire fuori è quello di coalizioni da costruire in parlamento. In questo caso, ammesso che il Pd risulti il primo partito, con chi mai potrà fare il suo governo? È la domanda a cui Letta dovrebbe rispondere. E la risposta non può che essere: anzitutto con il Movimento 5 Stelle (a meno che questo non precipiti ulteriormente), e poi con i berlusconiani e la parte centrista del cartello delle destre. Punto.