È finito tutto “a puttane”, per dirla con un’espressione poco elegante ma che va al sodo. Il processo “Ruby ter”, nato nel 2015 per valutare le accuse di falsa testimonianza e corruzione in atti giudiziari contro Silvio Berlusconi e altre ventotto persone (quasi tutte ragazze), si è concluso con una clamorosa assoluzione, che non assolve proprio nessuno e dà il senso di quanto il berlusconismo abbia fatto sbandare l’Italia.
In buona sostanza, la faccenda è questa: il fondatore di Forza Italia organizzava nelle sue belle dimore “feste eleganti” – lui le chiamò così – nelle quali si consumava, in realtà, un rapporto di prostituzione con le invitate, tutte giovani donne inebriate da soldi e potere. Due processi lo hanno stabilito, “Ruby 1” e “Ruby 2”; ma se vogliamo uscire dal campo giudiziario ci può bastare quella scioccante protesta di Veronica Lario, allora signora B., la quale, avendo appreso che la vicenda era ormai pubblica, consegnò ai giornali la sua umiliazione e l’immagine del “Drago e le vergini”.
Nel “Ruby 2” sono stati condannati alcuni intermediari (il pingue Lele Mora, agente “artistico” messo al servizio delle giovani, Nicole Minetti, ex consigliere regionale, pagata dai contribuenti per organizzare le serate hot, e il fido Emilio Fede che è ancora lì a chiedersi se gli sia valsa tanta sollecitudine verso il padrone). La tornata processuale appena conclusa è finita con una assoluzione che sembra piena (“il fatto non sussiste”), ma non è così come appare.
È vero che la procura non è riuscita a dimostrare che i dieci milioni di euro sparsi a destra e manca dal generoso anfitrione servirono per convincere la sua corte a non dire la verità su quei consessi. Clamorosamente, si può dire, Berlusconi è stato assolto. L’ex presidente del Consiglio ha potuto vincere perché la sua difesa, nel 2021, presentò una istanza nella quale faceva notare che le ragazze indagate (perché accusate di aver mentito nei processi precedenti) non potevano essere sentite come testimoni della corruzione, semmai come indagate in reato connesso. Non si può accusare di falsa testimonianza una persona indagata, si può farlo solo con un testimone puro, estraneo all’impianto accusatorio: art. 384, comma 2, Cp: “La falsa testimonianza può essere commessa solo da chi legittimamente riveste la qualità di testimone. Se viene assunto come ‘testimone’ un soggetto che non poteva rivestire tale qualità perché sostanzialmente raggiunto da indizi per il reato per cui si procede o per altro ad esso connesso, la possibilità di punirlo per dichiarazioni false è esplicitamente esclusa dall’art. 384, comma 2, Cp”.
Gli indagati hanno la facoltà di mentire: un (importante) errore procedurale ed ecco che il castello cade giù. È così che accade in uno Stato di diritto. Il fu avvocato Ghedini, mente perversa dell’inghippo giuridico, se la starà ridendo, se da lassù vede. Dopo un processo durato cinque anni – per la sola udienza preliminare, tra certificati medici e legittimi impedimenti, ci sono voluti tre anni – è triste e gravissimo lo stato confusionale della maggiore tra le procure italiane, quella milanese, che tuttavia aveva visto giusto nel voler perseguire Berlusconi, pur alla fine di un lungo percorso, portando a processo le figure sbagliate. Ma la sostanza resta tutta. Quei soldi furono dati materialmente (prima ancora per pagare le prestazioni sessuali), ricostruiti i passaggi e ammesse le regalie anche in aula: per la difesa, appunto, solo liberalità, nessuna compravendita di favori.
L’assoluzione (non sappiamo se la procura farà ricorso, vedremo, intanto altri processi connessi vanno avanti in altre città), e il coro di entusiasmo della destra, che si riconosce profondamente e con voluttà nel senso del potere berlusconiano, hanno trasformato i fatti in un film. Ma sono pura e dura realtà: il sexygate di un presidente del Consiglio, l’uso sfrontato e rivendicato della ricchezza, l’abuso e la mercificazione del corpo di giovani donne assatanate, a loro volta, dai soldi, felici di offrirsi al magnate, sono tutte cose accadute e gestite dalla allora massima autorità politica del Paese.
La magistratura ha cercato di fare del proprio meglio, per stanare la diffusa e gravissima natura criminale dei comportamenti di Berlusconi: il Cavalierato, si diceva in un precedente pezzo (vedi qui), è stato segnato in fin dei conti da tre grandi filoni giudiziari: la condanna per falso in bilancio di Berlusconi, quella per frode fiscale di Cesare Previti e il concorso esterno all’associazione mafiosa di Marcello Dell’Utri. Una triade che racchiude la natura del potere berlusconiano, con il quale la magistratura si è trovata faccia a faccia in un drammatico scontro frontale e forse – è il caso di dirlo – ha fatto meglio della politica che a tratti tentò di venire a patti con il Drago. Al quale interessava poco di tutto: tranne che dei suoi raggiri e del suo impero, e della sua esibita virilità.