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Tik Tok e il voto del 25 settembre

Uscendo dalla stazione di Napoli, ci siamo imbattuti in una vetrina della Feltrinelli in cui ogni libro era legato a un evento su Tik Tok. Libri di spessore che vengono raccontati, presentati, venduti, con il linguaggio sincopato del social più amato dagli adolescenti. Cosa può simboleggiare, più concisamente di questa vetrina, il cambio antropologico, prima ancora che politico, che sta trasformando il nostro Paese sulla scia di quanto già accaduto nei principali Stati occidentali? E cosa può annunciare più spettacolarmente come i percorsi del voto e dei consensi siano sempre più occasionali, emotivi, momentanei? Si vota come si legge: su Tik Tok. Non è una consolazione né una giustificazione preventiva, è la conferma che l’uomo è ciò che mangia: dunque, quanto accade è sempre conseguenza dei processi di trasformazione sociale.

Come diceva Alessandro Magno, per spingere avanti i suoi generali che avrebbero preferito tornare a casa, “non esiste più la Macedonia che abbiamo lasciato e potremo essere ancora re solo se andiamo oltre l’Hindu Kush”. Per cui, una testata come “terzogiornale”, che si propone appunto come luogo di una inconsueta e forse anche eccentrica meditazione – lenta e analitica dei processi più profondi, anziché delle evidenze più abbaglianti –, non darà indicazione di voto specifico ma chiamerà i suoi lettori a votare, comunque, per dare alla sinistra la possibilità di cominciare a pensare con più forza e determinazione dopo il voto: whatever it takes, costi quel che costi, come amava dire il presidente del Consiglio uscente.

Meloni sull’aborto. Una mastodontica manipolazione

L’insistente rassicurazione di Giorgia Meloni circa le sue intenzioni di non modificare la legge sull’interruzione di gravidanza nasconde, ovviamente, l’obiettivo di frantumarla. Sembra di sentirla: “Che devo fa’ pe’ convinceve?”. Non intendiamo sostenere che abbia una personalità multipla, tutt’altro. Il punto è che il disegno della destra va decisamente in un’altra direzione: e possiamo dirlo con certezza, perché è già attuato dalle loro giunte regionali, Marche e Piemonte in particolare, dove l’accesso al servizio viene reso difficile ed è impedito l’uso della pillola abortiva Rsu 486 (sdoganata con fatica in Italia, mentre l’Europa ne fa uso da tempo), magari imponendo il ricovero per la sua somministrazione, benché non previsto dalle linee guida del ministero della Salute. Oppure infestando le strutture con i volontari pro-life, sovvenzionati da soldi pubblici, che si aggirano nei locali per scoraggiare le disgraziate di turno.

E poi la semplificazione del messaggio meloniano è solo il frutto di una mastodontica manipolazione, che consiste nel non dire e nel deformare le posizioni altrui: lei dissimula, gridando “non toccherò la 194!”, ma attribuendo ai sostenitori della legge l’intenzione di volere fare abortire ogni donna, finanche al nono mese! Ridicolizzando e svilendo a caricatura ogni posizione che difende una storica legge, che ha funzionato al punto da portare l’Italia ad avere un tasso di interruzioni volontarie di gravidanza tra i più bassi al mondo.

Sanità pubblica, cos’è?

Il mondo intero ha vissuto una pandemia lunga quasi tre anni, descritta come avvenimento epocale non solo per l’entità e la gravità dell’infezione, ma anche per le riflessioni che ha suscitato sugli stili di vita, sui modelli di crescita e di socialità – assieme a quelli complessivi circa libertà, autorità e democrazia. Ma, nell’Italia che si avvia alle elezioni, i temi del Covid-19 e della sanità sono scomparsi. Nessuno ne parla, dopo quasi centottantamila morti e la crisi terribile che le strutture sanitarie hanno dovuto subire fra il 2020 e il 2022. Tutto sembra essere alle spalle e, al limite, viene descritto come un brutto periodo dal quale si è usciti con la classica tenacia degli italiani, grazie alla loro voglia di tornare a vivere e divertirsi. Questo è il livello del nostro dibattito pubblico sul virus e sulla sanità.

La pandemia e la drammatica crisi della sanità nel nostro Paese potevano e dovevano essere l’occasione per riflettere sull’idea di pubblico per le sinistre, soprattutto in campagna elettorale. Nessuno lo sta facendo – e ciò è paradigmatico della povertà politico-culturale di una compagine politica. Eppure, in Italia, abbiamo vissuto, specialmente nei primi mesi della pandemia, momenti tragici. Da varie testimonianze, sappiamo come – soprattutto in Lombardia – vi siano state famiglie che hanno dovuto scegliere quale familiare ricoverare, perché la disponibilità di posti letto non era sufficiente a curare tutti. In quelle famiglie, i vecchi hanno scelto di morire a casa per far ricoverare in ospedale chi era più giovane.

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Torna con regolarità la proposta di Matteo Salvini di riattivare la leva obbligatoria, sospesa (non abolita) quasi vent’anni fa. Il punto è che questa estate appiccicosa è anche una stagione elettorale – e promesse o intenzioni pesano più delle solite dichiarazioni di bandiera. L’idea sembra diretta a una certa fascia, quella borghese medio-piccola, in età da figli adolescenti, con lo spauracchio delle cattive compagnie. Ma c’è qualcosa di serio nel ritornello della “naja”, con cui ogni tanto si cercano consensi?

Il sistema costituzionale resta ancorato a una cittadinanza che comprende la partecipazione alle armi, com’è proprio dello Stato moderno, soprattutto dopo la Rivoluzione francese e le campagne napoleoniche. Ma c’è da dubitare che la Lega e i gestori della sua macchina pubblicitaria si ispirino alla storia, fitta di dispettose complicazioni. A proposito di propagandisti, il più famoso tra quelli della Lega fu sorpreso in frequentazioni di palestrati rumeni, a pagamento, col sospetto di qualche accessorio chimico. Una storia che non starebbe bene fra gli esempi edificanti da offrire ai giovani.

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