São Paulo è lo Stato federato più grande del Brasile. Con i suoi quarantaquattro milioni e quattrocentomila abitanti, concentra il 21,9% della popolazione brasiliana. Relativamente al fattore economico, genera il 33,9% del Pil nazionale, una enormità che lo situa al primo posto nella graduatoria della ricchezza del Paese. Negli ultimi tre anni, la sua crescita economica è stata del 7,5% rispetto all’1,5% del resto del Brasile. Tuttavia, quella che potrebbe a prima vista sembrare una situazione invidiabile, è insidiata dalla inarrestabile crescita del Primeiro Comando da Capital (Pcc), l’organizzazione criminale fondata nel 1993 da detenuti nella prigione di Taubaté, a centotrenta chilometri dalla capitale paulista.
Le fiorenti attività del Pcc hanno trasformato il porto di Santos nel principale centro di smistamento della cocaina diretta allo spaccio europeo, mentre le città della grande area metropolitana di São Paulo si sono ormai trasformate in piazze di smercio di droghe sintetiche destinate a soddisfare un crescente fabbisogno interno. Domenica 30 ottobre, quando si andrà al ballottaggio per decidere chi sarà il nuovo presidente della Repubblica e si voteranno i governatori negli Stati che al primo turno non li avevano eletti, Tarcisio Gomes de Freitas, ex ministro di Bolsonaro, ha buone chance di battere nientemeno che Fernando Haddad, rappresentante del Partido dos trabalhadores, e soprattutto candidato alle presidenziali del 2018 al posto di Lula, allora sotto processo per corruzione, di cui è stato fugace delfino. Il risultato dello Stato di São Paulo, con i suoi circa trentacinque milioni di votanti, potrebbe essere determinante per la contesa che oppone Jair Bolsonaro a Lula da Silva. L’ennesima conferma, se ancora ce ne fosse bisogno, che il fenomeno del bolsonarismo, che in tanti quattro anni fa avevano giudicato effimero, non è affatto tale. Il 2 ottobre scorso l’ex capitano a riposo ha stupito tutti, e ha smentito i sondaggi che lo davano a quattordici-quindici punti percentuali al di sotto di Lula. Mentre il bolsonarismo, espressione politica del “Mito”, come viene chiamato dai suoi Jair Messias Bolsonaro, si è confermato movimento politico vitale sia a livello parlamentare, sia riuscendo a conquistare il governo di Stati importanti, come quelli di Rio de Janeiro e di Minas Gerais, dato che il governatore di quest’ultimo, com’era chiaro, ha deciso di appoggiarlo al ballottaggio.
L’attuale presidente era stato eletto al suo primo mandato nel mezzo di una spaventosa crisi politico-sociale originata dallo scandalo Petrobras, da lui definito nel corso dell’ultimo confronto televisivo con Lula dopo il primo turno, come “il più grande scandalo di corruzione dell’umanità”. In quest’occasione i due contendenti si sono vicendevolmente dati del “ladro, bugiardo, vergogna nazionale”. Ma tali accuse, pur pesanti, sono state in breve superate, nel prosieguo della campagna, da quelle di satanismo, cannibalismo e pedofilia. Un crescendo incontenibile superato solo da una valanga di disinformazione che sta disorientando l’elettorato brasiliano, e che rischia di minare le stesse basi della democrazia. Di fronte al dilagare, più da destra che da sinistra, di un fiume di fake news soprattutto attraverso la rete, il Tribunale supremo del Brasile ha conferito al suo capo, Alexandre de Moraes, per tutta la durata della campagna elettorale il potere di imporre alle imprese tecnologiche di cancellare messaggi e video contenenti falsità. Dando loro due ore di tempo per rimuovere i messaggi incriminati, pena la sospensione dei loro servizi nel Paese fino a ventiquattro ore.
Per quanto la misura trovi giustificazione nella deriva informativa che il Brasile sta in queste settimane vivendo, un tale potere concesso a un solo uomo ha suscitato critiche, soprattutto da parte della destra bolsonarista. Se, da una parte, essa pare essere la prima danneggiata dal provvedimento, dall’altra non si è lasciata sfuggire l’occasione di attaccare direttamente de Moraes, reo in passato di avere messo sotto inchiesta il presidente, di aver fatto arrestare alcuni suoi sostenitori, e di avere difeso il sistema elettorale brasiliano contro gli attacchi più volte portati da Bolsonaro stesso. Il Tribunale elettorale – ha detto – sta portando il Brasile verso uno “Stato dittatoriale”.
Al di là delle critiche della destra, la decisione ha anche sollevato forti perplessità tra gli esperti di diritto per la sua potenzialità autoritaria e censoria, giudicata capace di influire nella contesa elettorale. Costituendo essa uno strumento che potrebbe prestarsi ad abusi. Ma ha anche riscosso il favore di molti che la considerano necessaria per arrestare una campagna fatta di falsi,che negli ultimi tempi ha raggiunto livelli incredibili, dato che, come è stato sostenuto dallo stesso de Moraes, le denunce per disinformazione sono aumentate diciassette volte rispetto alle elezioni precedenti.
Tuttavia, vista la valanga della disinformazione che il Brasile sta vivendo in queste settimane – e tenuto conto che gran parte di essa passa attraverso applicazioni, tipo WhatsApp, che criptano i messaggi non controllabili dai gestori –, il rischio è che la decisione del Tribunale supremo sia insufficiente a combattere il fenomeno delle fake news. Ma ampiamente funzionale ad alimentare la narrazione antisistema sulla quale Bolsonaro ha poggiato e poggia la sua fortuna, pur occupando il PaláciodoPlanalto, sede della presidenza a Brasilia, da quasi quattro anni. Lo svantaggio che lo separa da Lula da Silva si riduce ora a soli quattro punti percentuali, quando restano da contendersi ormai il 4% dei voti bianchi e nulli, e l’1% degli indecisi. Con un margine di errore dei sondaggi pari al 2%, i due sono di fatto in pareggio tecnico. Nell’aumento del consenso per Bolsonaro hanno giocato di certo alcuni fattori economici: una crescita che quest’anno passa dall’1,7 al 3%; un dato relativo alla disoccupazione (8,9%) che è il migliore dal 2015; l’inflazione che cala al 5,5%, minore perfino di quella americana ed europea.
Pur essendo stato criticato per la sua disastrosa gestione della pandemia, che ha procurato al Paese 680mila morti, Bolsonaro si ascrive il merito del rimbalzo economico che il Brasile ha vissuto dopo la crisi del Covid, e rilancia le sue ricette neoliberiste incentrate sulle privatizzazioni e sul taglio delle tasse. Trova ascolto in chi, come si è visto dal risultato del primo turno, pensa che egli non abbia potuto realizzare i miracoli che aveva promesso a causa dell’emergenza sanitaria, anche se per l’anno a venire già si annuncia un raffreddamento economico.
Bolsonaro ha confermato Paulo Guedes, Chicago boy, al ministero dell’Economia in caso di vittoria. Considerato da certi ambienti finanziari il miglior ministro dell’economia. Sarà un caso, ma il giorno dopo il primo turno la borsa di São Paulo ha chiuso con un più 5,54%, il miglior risultato dal 6 aprile 2020, mentre alcuni operatori della Calle de XV de Noviembre, dove sorge l’edificio, ancora increduli, andavano sussurrando che Bolsonaro poteva cambiare il gioco e vincere.
Ma non tutto il mondo della finanza si riduce a questo. Anche se i due candidati presidenziali non hanno chiarito i loro programmi – ed essendo la “minaccia comunista” agitata dalla destra una leggenda metropolitana –, sono molti a riconoscere che Lula ha sulle spalle un passato di politiche economiche moderate che dovrebbe tranquillizzare i mercati. E ciò spiega anche la nascita di quella specie di comitato nazionale di liberazione da Bolsonaro che lo appoggia. Tanto più che Lula, quando ha governato, ha adottato una linea fiscale ortodossa, che ha consentito alle entrate tributarie di superare le spese, attraendo investimenti privati, e riuscendo a fare del Brasile la sesta potenza mondiale. Non è un caso che molti ex presidenti della Banca centrale abbiano annunciato di votarlo al ballottaggio. Al contrario, Bolsonaro ha isolato il Paese a livello internazionale.
Se i dati macroeconomici sono positivi e sono rivendicati da Bolsonaro come un suo merito, problematica appare invece la realtà quotidiana di buona parte della gente comune. Secondo i dati diffusi dalla Confederazione nazionale del commercio di beni, servizi e turismo, il 79% delle famiglie si sono indebitate per pagare telefono, internet o le spese relative all’auto e all’abitazione. Una situazione potenzialmente esplosiva, alla quale entrambi i contendenti stanno pensando di rispondere con misure che consentano di rinegoziare il debito con le aziende fornitrici di servizi. Peggiora anche il mercato del lavoro, dove aumenta il tempo necessario per trovare una occupazione stabile, che ora richiede un periodo medio di un anno e mezzo, tre mesi in più di quello che era necessario due anni fa. A farne maggiormente le spese sono ovviamente i poveri, che in genere scontano la mancanza di formazione, dato che tra i dieci milioni di disoccupati attuali scarsa è la manodopera qualificata. Mentre, nonostante l’economia sia in crescita, sono trentatré milioni i brasiliani che vivono nell’insicurezza alimentare.
Pure l’industria manifatturiera non se la passa bene, asfissiata dalla eccessiva burocrazia, dalle alte imposte e dalla mancanza di una strategia di accordi commerciali. La sua produzione perde posizioni ed è superata dalla Turchia, che ora occupa il quindicesimo posto nella classifica dei maggiori produttori industriali del mondo. Tutto ciò mentre da parte dei due candidati, impegnati a darsele di santa ragione e a scambiarsi accuse, non è provenuta ancora alcuna proposta, nessuna idea di soluzione, durante quella che probabilmente passerà alla storia come la più brutta e sporca campagna elettorale vissuta dal Brasile.Da Belo Horizonte in Minas Gerais, Lula ha promesso nello scorso fine settimana che “avremo più donne, neri, indigeni nel governo, perché il governo deve avere l’aspetto della società brasiliana, la faccia del Brasile”. Una decisione meritoria, che prende atto della complessità della realtà, e va nel senso del superamento degli steccati e delle discriminazioni. Basterà ad assicurargli la vittoria il 30 ottobre?