L’attuale presidente della Repubblica dominicana, Luis Abinader, in carica dal 2020, è stato rieletto ieri, 19 maggio, al primo turno, con quasi il 60% dei voti. Il doppio di quelli ottenuti dal candidato in seconda posizione, l’ex presidente Leonel Fernández, mentre Abel Martínez, terzo nella competizione, ha ottenuto l’11%. Quando ancora il conteggio non era concluso, sia Fernández sia Martínez hanno riconosciuto il trionfo di Abinader, che rimarrà in carica altri quattro anni. Nel suo primo discorso, nella notte che ne ha segnato il trionfo, il presidente ha assicurato che non cambierà la Costituzione per poter correre per un terzo mandato. Tutti e tre i maggiori candidati, che insieme rappresentano il 98% dei voti, erano portatori di una proposta politica conservatrice molto simile. Mentre le posizioni progressiste sono del tutto insignificanti nel Paese.
Gli 11,3 milioni di abitanti, di cui poco più di otto erano ammessi al voto, hanno rinnovato anche i centonovanta membri del Congresso e i trentadue del Senato. Così come i venti rappresentanti dominicani nel parlamento centroamericano. Il Partito rivoluzionario moderno (Prm), di centrosinistra, ha ottenuto una maggioranza in più di venti delle trentadue regioni. Il che darebbe al neoeletto la maggioranza per l’elaborazione dei disegni di legge riguardanti le riforme annunciate.
Abinader, primo presidente dominicano nato dopo la dittatura di Rafael Leónidas Trujillo (1930-1961), ha vinto grazie al boom economico raggiunto durante il suo primo mandato, un protagonismo regionale a livello politico, e un discorso contro l’insicurezza e contro il vicino haitiano. Nel primo mandato, ha nominato un procuratore generale, affidandogli il compito di combattere la corruzione. Ha avviato politiche tese a favorire gli investimenti stranieri, e, nella crisi pandemica, ha accelerato le vaccinazioni, riuscendo rapidamente a riaprire al turismo. L’efficace lotta alla pandemia ha rilanciato il settore turistico e, in generale, l’economia del Paese, permettendo una ripresa molto più veloce di concorrenti come Porto Rico, Cuba, Giamaica e le Bahamas. Economista e imprenditore miliardario di 56 anni, partiva come il favorito. Si è fatto apprezzare dall’elettorato per la sua capacità di svincolarsi da posizioni ideologiche tradizionali e per destinare, populisticamente, il suo stipendio di presidente ai programmi sociali. Ex magnate del turismo e dell’edilizia, ha favorito una forte espansione economica, in parte generata dal commercio con gli Stati Uniti. Ma i suoi oppositori lo accusano di indebitare il Paese in modo “abusivo e irresponsabile” per la quantità di prestiti che il governo ha acceso. Ha anche promosso misure controverse per frenare il flusso di haitiani, tra cui la costruzione di un muro, che il governo preferisce chiamare “porta intelligente”. Sta di fatto che, secondo un sondaggio Cif Gallup dello scorso settembre, la sua politica gli aveva valso una approvazione del 70%, rendendolo uno dei leader più popolari in America latina.
Ex colonia spagnola, la Repubblica dominicana condivide l’isola di Hispaniola con la più piccola Haiti, un tempo dominio francese, a ovest. Tra i due Paesi corre un confine di quasi quattrocento chilometri. Ma mentre la Repubblica dominicana gode di una stabilità politica, a partire dal 1990, vantando una delle economie in più rapida crescita nella regione, Haiti vive da anni una crisi politica, economica e umanitaria spaventosa, con un esodo massiccio di popolazione che mette a rischio la nazione confinante. Durante il 2023, la Repubblica ha concesso 47.000 permessi di soggiorno agli stranieri, e ha rispedito circa 251.000 persone a Haiti, secondo i dati ufficiali, ivi comprese le persone che hanno bisogno di protezione internazionale. Data la situazione, organizzazioni come Amnesty International o Human Rights Watch l’hanno accusata di attuare politiche migratorie e di confine con gli haitiani etichettabili come “razziste” e “discriminatorie”, mediante espulsioni collettive che sono una chiara violazione degli obblighi internazionali e mettono a rischio la vita e i diritti delle persone.
Dal canto suo, Abinader ha sempre respinto le accuse di razzismo, ricordando che la stragrande maggioranza della popolazione dominicana è di origine meticcia. Mentre ha rivendicato il diritto a bloccare l’esodo dei disperati haitiani, non potendo farsi carico della crisi di Haiti. In campagna elettorale ha confermato di voler finire il muro. Una linea condivisa dall’ex presidente, nonché ricandidato alle presidenziali, Leonel Fernández, che ha approvato le deportazioni affermando che, di fronte all’immigrazione illegale, la legge deve essere applicata; così come pure dall’altro candidato, Abel Martínez, favorevole al progetto del muro. Tuttavia, se la politica dominicana esprime una netta chiusura nei confronti dei migranti, non ha fatto mancare il sostegno umanitario nel caso di disastri naturali. Come nel 2010, quando Haiti ha subito il peggior terremoto della sua storia.
La politica contro i migranti haitiani non è, comunque, una novità, dal momento che, nel settembre 2013, la Corte costituzionale ha stabilito che i bambini nati nel Paese non possono avere la nazionalità dominicana, se i loro genitori sono arrivati illegalmente. La disposizione è stata applicata retroattivamente a tutte le persone nate dal 1929 in poi, privando così arbitrariamente della nazionalità dominicana centinaia di migliaia di persone di origine haitiana, e creando una situazione di apolidia mai vista prima in America. Ma la retroattività del provvedimento non ha turbato più di tanto l’opinione pubblica del Paese caraibico. Sebbene ci siano stati tentativi legali per la restituzione della nazionalità, centinaia di persone nate nella Repubblica dominicana da genitori haitiani stanno ancora affrontando processi di deportazione in un Paese in cui non sono mai stati.
In questa situazione, quello delle migrazioni è diventato un business fiorente, gestito da gruppi criminali. A tal punto che il prezzo di un trasferimento è passato dai settemila pesos del 2021 ai quindicimila di oggi, circa duecentocinquanta dollari. Un’attività redditizia, cui si dedica anche una parte dei funzionari governativi incaricati del controllo dei migranti in cerca di salvezza, che, versando loro del denaro, possono evitare il ritorno forzato nel Paese di origine. Del resto, l’avere risposto al problema migratorio con la militarizzazione non ha avuto i risultati sperati, dato che gli stessi militari partecipano al business della migrazione, che è un problema politico, sociale ed economico non risolvibile con misure militari. Ciò detto, la Repubblica dominicana e Haiti dipendono economicamente l’una dall’altra, essendo Haiti il secondo partner commerciale con l’8,4%, mentre il primo sono gli Stati Uniti con il 56% del totale.
Migrazioni, economia e insicurezza sono alcuni dei problemi che il presidente eletto si troverà quindi ad affrontare, dato che nel 2022 il tasso di omicidi era di 13,1 per centomila abitanti, il più alto rispetto agli otto anni precedenti. Altro problema, sentito dalla popolazione, è l’alto costo della vita e la mancanza di lavoro, anche se il Fondo monetario internazionale stima una crescita vicina al 5% entro il 2024. Oltre al problema migratorio, e al pericolo che le bande criminali haitiane estendano le loro attività nella Repubblica dominicana, la deviazione del fiume Massacre, noto come Dajabón sul lato dominicano, decisa dagli haitiani, ha spinto il governo di Abinader a chiudere il confine.
Pur non mancando ombre, sono positivi, invece, i dati della Banca mondiale, secondo i quali l’economia è cresciuta del 2,5% nel 2003, mentre si prevede una crescita del 5,1% entro il 2024. Di fatto il Paese, con l’eccezione dello scorso anno, è cresciuto in media del 5% all’anno per due decenni. Tuttavia, uno studio della Banca interamericana di sviluppo, presentato a marzo, mette a nudo la grande disuguaglianza di cui soffre ancora la Repubblica, dato che circa l’1% della popolazione controlla circa il 42% della ricchezza totale. Una situazione denunciata dai candidati usciti sconfitti, secondo i quali la crescita economica – che ha fatto del Paese l’ottava economia dell’America latina nel 2023, in buona parte grazie al turismo – non è riuscita a ridurre le disuguaglianze. La Repubblica dominicana ha il 46% delle case prive di acqua potabile diretta, inoltre i più bassi indicatori di qualità dell’istruzione, e continua a essere un Paese con il più alto tasso di mortalità materna e di gravidanze adolescenziali. Critiche vengono mosse al presidente per avere fatto poco o nulla per promuovere la questione dell’aborto nel Congresso nazionale, controllato dal suo Prm, nonostante il fatto che, nella campagna elettorale del 2020, si fosse detto a favore dell’interruzione della gravidanza quando mette a rischio la vita della donna, se il feto non ha la possibilità di vivere fuori dall’utero, o nel caso di stupro o incesto. E altre critiche gli sono rivolte per non avere dato seguito alla promessa di una riforma fiscale, rinviata da anni: infatti, dopo le critiche al suo progetto presentato nell’ottobre 2020, nulla ha più fatto in seguito.
Pur essendo tutto sommato una piccola economia – il Pil, lo scorso anno, era poco più di centoventuno miliardi di dollari –, la Repubblica dominicana è passata da Paese a basso reddito a Paese a medio reddito più velocemente dei suoi concorrenti latinoamericani, e ora punta a un reddito alto. Per raggiungere l’obiettivo, il governo conta sul fatto che gli investimenti continuino a fluire al ritmo odierno. Le fonti di valuta estera e di entrate sono salite grazie al turismo, che ha generato dieci miliardi di dollari, alle rimesse inviate dai cittadini all’estero, che hanno registrato altri dieci miliardi di dollari, e alle esportazioni, che hanno totalizzato quattordici miliardi. L’investimento diretto straniero ha raggiunto un record di 4.300 milioni di dollari.
I successi economici si spiegano inoltre col fatto che, in tutta la Repubblica, esistono luoghi speciali con aziende che producono di tutto, dalle attrezzature mediche ai gioielli esenti da tasse. Sono le zone franche, parchi industriali con regole fiscali e doganali diverse dal resto del Paese, e che attualmente incanalano i due terzi delle esportazioni. Queste aree sono diventate anche una fonte di lavoro grazie ai 198.000 impieghi generati l’anno scorso, secondo le cifre dell’Associazione delle zone franche delle Americhe (Azfa). Mentre una recente analisi del Real Instituto Elcano conferma che la favorevole congiuntura economica si basa su “settori di punta”, come appunto le zone franche, il turismo e le rimesse. Attualmente, nelle zone franche dominicane, ci sono circa 820 aziende locali e straniere che hanno esportato per più di ottomila milioni di dollari nel 2023, secondo le cifre ufficiali – un vero e proprio record. Si commercia di tutto, dai tradizionali tessuti, al tabacco, ai prodotti farmaceutici e alle attrezzature mediche; dai prodotti in plastica, metallici, elettrici, alle calzature, ecc. Oltre a ciò, grazie alla posizione geografica e alle infrastrutture di porti e aeroporti, la Repubblica dominicana ha iniziato a beneficiare del nearshoring, cioè di quel fenomeno per cui le industrie occidentali esternalizzano parte della loro produzione nei Paesi vicini, anziché in Asia, per semplificare la logistica.