(Questo articolo è stato pubblicato il 7 aprile 2021) La Corte costituzionale, sulla base di una questione sollevata a Ravenna, ha esteso la tutela del lavoratore licenziato, ripristinando in parte la reintegrazione nel posto erosa negli ultimi anni. La novità riguarda i cosiddetti “licenziamenti economici”: lavoratori licenziati per giustificato motivo oggettivo, cioè non per fatti addebitabili a loro, ma per ragioni d’impresa. Un ambito destinato a maggior peso, dopo l’emergenza sanitaria e con le prevedibili ristrutturazioni aziendali.
La normativa di base è sempre l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori (legge 300 del 1970), ed è stata più volte modificata, ridimensionata o semplicemente aggirata. Momenti significativi, la legge 92 del 2012 all’epoca del governo Monti, ministro del lavoro Fornero, e gli interventi compresi sotto il nome Jobs Act, capolavoro del governo Renzi, ministro del lavoro Poletti (ex Pci e presidente della Lega delle cooperative). Tutte riforme per difendere il lavoro, secondo ricorrenti retoriche diversive; in realtà smantellamenti delle migliori conquiste storiche della mobilitazione operaia e sindacale. Quando Berlusconi, nel 2002, tentò di mettere mano all’articolo 18, si ebbe una delle più imponenti manifestazioni di massa dell’Italia repubblicana; gli attacchi successivi non hanno avuto reazioni paragonabili.
La recentissima sentenza della Consulta (59 del 2021) è un passo avanti, anche se recupera qualcosa dei precedenti passi indietro. Ed è un passo giudiziario, diverso dalle iniziative tipiche del mondo del lavoro. Colpisce, quando i giuristi sono su posizioni avanzate: diventano avanguardie e ci si chiede dove sia il seguito. Occorrerà una riflessione più ampia sul giurista come cerniera della modernità.
La motivazione è basata sul principio di uguaglianza. Il tema è: per i licenziamenti disciplinari è prevista la reintegrazione del lavoratore quando si dimostra che il fatto addebitatogli dal datore di lavoro non sussiste; per quelli economici l’insussistenza del fatto, purché manifesta, può, non deve necessariamente condurre alla reintegrazione. Leggiamo il testo:
“L’insussistenza del fatto – sia che attenga a una condotta di rilievo disciplinare addebitata al lavoratore sia che riguardi una decisione organizzativa del datore di lavoro e presenti carattere manifesto – rende possibile una risposta sanzionatoria omogenea, che è quella più energica della ricostituzione del rapporto di lavoro. In un sistema che, per consapevole scelta del legislatore, annette rilievo al presupposto comune dell’insussistenza del fatto e a questo presupposto collega l’applicazione della tutela reintegratoria, si rivela disarmonico e lesivo del principio di eguaglianza il carattere facoltativo del rimedio della reintegrazione per i soli licenziamenti economici (corsivo nostro)”.
Insomma: c’è un licenziamento, il datore di lavoro dice che è dovuto a motivi oggettivi, ma questi si rivelano manifestamente falsi o superati. Solo l’apparenza bugiarda sulla situazione dell’azienda, sulle decisioni organizzative, sulle condizioni di mercato o su altri fattori, ma bugiarda dal naso di lunghezza vistosa, determina la reintegrazione. Per meglio dire: sino a ora, poteva determinarla oppure no; la scelta era demandata ai giudici, di volta in volta, e demandata in un modo così vago da metterli in imbarazzo.
La sentenza spiega: il licenziamento per addebito disciplinare falso e quello per ragioni imprenditoriali false si risolvono in “una vicenda traumatica, che vede direttamente implicata la persona del lavoratore”. Effettivamente, i due casi esprimono lo stesso conflitto, emerso su due lati diversi: il padronato inventa le colpe di chi lavora, oppure millanta i meriti per sé. Evidentemente, se le narrazioni per sbarazzarsi di qualcuno possono assumere una forma o l’altra, perché alla bisogna il datore di lavoro può dire “male il lavoratore” oppure “bene l’impresa”, allora la reintegrazione anche per la seconda ipotesi deve essere sempre obbligatoria. Altro che valutazione caso per caso: meglio togliere al giudice l’arduo dilemma e reintegrare. Tanto più che, come ha detto il tribunale ravennate nel rivolgersi alla Consulta, se dopo un licenziamento per motivi imprenditoriali fasulli è un giudice a decidere chi far tornare in azienda e chi no, con tutte le conseguenze, una toga si improvvisa imprenditore (e viene da aggiungere, coi corpi e i capitali degli altri).
Per effetto del richiamo all’uguaglianza e del ragionamento sviluppato nella decisione, viene anche contraddetto l’orientamento seguito più volte dalla sezione lavoro della Cassazione, secondo cui la reintegrazione, ormai, avrebbe una natura residuale rispetto alla tutela solo monetaria.
La Corte, poi, respinge la tesi dell’eccessiva onerosità, cioè l’orientamento interpretativo che, prima di questa sentenza, subordinava la tutela del più debole alla valutazione di interessi più grandi di lui:
“È sprovvisto di un fondamento razionale anche l’orientamento giurisprudenziale che assoggetta a una valutazione in termini di eccessiva onerosità la reintegrazione dei soli licenziamenti economici (corsivo nostro), che incidono sull’organizzazione dell’impresa al pari di quelli disciplinari e, non meno di questi, coinvolgono la persona e la dignità del lavoratore”.
Anche questo passaggio ha un bel peso di principio, visto che la motivazione osserva come ogni valutazione di onerosità sia inevitabilmente connessa alle caratteristiche dell’impresa. La tesi dell’eccessiva onerosità, superata dalla Consulta, era un’arma in più per il datore di lavoro: l’imprenditore che oggi dà forma all’azienda, determina già cosa è più e meno oneroso, e perciò preordina anche se e chi, domani, dopo il licenziamento sarà reintegrato o prenderà solo un po’ di denaro.
Questa sentenza è da apprezzare. Arriva mentre stanno prendendo corpo nuove lotte, come quelle dei lavoratori di Amazon e degli addetti alla distribuzione a domicilio. Settori in espansione e in veloce trasformazione, dove le ristrutturazioni possono causare, per motivi economici, provvedimenti di segno espansivo o riduttivo della forza lavoro; probabilmente, espansivo per alcune aziende e professionalità a scapito di altre. In casi del genere, va valorizzato il punto più significativo desumibile dalla voce della Consulta, non ancora approfondito dai commenti del mondo sindacale: non si può dichiarare innocente il lavoratore e trattarlo come un colpevole. La saldatura fra le esigenze del lavoro e i migliori principi potrà trovare terreno con mobilitazioni accompagnate da un’adeguata elaborazione tecnica e culturale.