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Caso Cucchi: dalla Cassazione l’ultima parola

(Questo articolo è stato pubblicato il 5 aprile 2022) Dieci gradi di giudizio e centocinquanta udienze sono stati necessari per accertare le responsabilità della morte...

Caso Cucchi, quando l’omertà non vince

Il gong della prescrizione sarebbe suonato alla mezzanotte, ma una pazzesca corsa contro il tempo ha impedito che scattasse la tagliola: la corte di...

Sentenza regressiva sull’aborto negli Stati Uniti. E in Italia?

La sentenza “Dobbs v. Jackson” della Corte suprema degli Stati Uniti abolisce il diritto costituzionale all’aborto sancito dalla storica sentenza del 1973 “Roe v....

Borsellino, la sentenza delle beffe

Non poteva che finire così. Non senza sarcasmo possiamo dire che, tanto lunga è stata l’attesa, da poter supporre che si volesse che andasse così: cioè che lo Stato scegliesse di non inchiodare se stesso, attraverso tre poliziotti, alle responsabilità del grande depistaggio dell’inchiesta su via D’Amelio. La sentenza è arrivata ieri, a una settimana dal trentesimo anniversario della strage nella quale furono trucidati Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta. Undici ore di camera di consiglio e il tribunale di Caltanissetta ha detto, in primo grado, che il depistaggio delle indagini sull’attentato ci fu, a commetterlo furono due poliziotti: Mario Bo e Fabrizio Mattei, ma il loro reato è prescritto per il venir meno dell'aggravante di mafia. Mentre esce assolto – per non aver commesso il fatto – Michele Ribaudo, terzo imputato, collega di Bo e Mattei ai tempi dell’inchiesta sugli attentati del 1992. Come sia caduta l’aggravante, lo spiegheranno le motivazioni che saranno – si può immaginare – un esercizio importante di retorica, dovendo spiegare che i due hanno ingarbugliato le indagini, hanno costretto, anche torturandolo, un delinquente comune a passarsi come uno stragista, non sapendo, tuttavia, che così stavano favorendo Cosa nostra. Una beffa, diremmo. Dunque, possiamo continuare a parlare di depistaggio nei nostri incontri pubblici, ma nessuno pagherà. 

Secondo la procura – rappresentata dai pm Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso – gli imputati, che appartenevano al pool incaricato di indagare sulle stragi di Capaci e Via D’Amelio, con la regia del loro capo, Arnaldo La Barbera, morto nel dicembre del 2002 portandosi via parecchi grandi segreti, avrebbero creato a tavolino i falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Salvatore Candura e Francesco Andriotta, imbeccandoli e costringendoli a mentire, e ad accusare della strage persone poi scoperte innocenti: da qui la contestazione di calunnia. Il castello di menzogne da loro montato, con la regia di La Barbera, ha di fatto aiutato i veri colpevoli, coprendo per anni le responsabilità dei clan mafiosi di Brancaccio e dei suoi capi, i fratelli Graviano. Per questo, ai tre poliziotti, la procura aveva contestato l’aggravante di avere favorito Cosa nostra, oggi caduta.

Caso Cucchi: dalla Cassazione l’ultima parola

Dieci gradi di giudizio e centocinquanta udienze sono stati necessari per accertare le responsabilità della morte del giovane Stefano Cucchi: i carabinieri Alessio Di...

5 Stelle, resa dei conti finale?

E adesso che succederà, dopo la decisione della settima sezione civile del tribunale di Napoli che azzera i vertici dei 5 Stelle? Cosa farà il fondatore del movimento, Beppe Grillo? I pentastellati sono sempre più a rischio di implosione e, dopo il pronunciamento dei giudici, lo scontro interno si sta rivelando sempre più come una lotta di potere. Ora, ai vertici dei 5 Stelle sono tornati il garante Beppe Grillo e il reggente Vito Crimi. È facile immaginare che l’esautorato Conte starà valutando le iniziative legali per tornare alla guida del partito. Di certo, il reggente Crimi dovrà garantire l’elezione di una guida collettiva (a cinque), cioè quanto decise la base del partito.

I giudici di Napoli hanno infatti dato ragione ai dissidenti dei pentastellati, rappresentati dall’avvocato Lorenzo Borrè, riconoscendo un deficit di democrazia interna nel momento in cui a capo dei 5 Stelle, nell’agosto scorso, fu eletto Giuseppe Conte. L’accusa è che non tutti gli iscritti poterono partecipare all’elezione. La decisione dei giudici napoletani arriva in un momento di forte tensione interna. Il presidente Conte aveva avvertito Luigi Di Maio: “Nei 5 Stelle nessuno è indispensabile”. E aveva precisato che, nel partito fondato da Beppe Grillo, “non sono ammesse le correnti”. Dopo la decisione del ministro degli Esteri di dimettersi dal Comitato di garanzia, proprio per avere le mani libere nel poter dire la sua sulle cose che non funzionano nel partito, Conte aveva voluto fissare dei paletti invalicabili, lasciando intuire che la battaglia interna si annunciava aspra (e che Di Maio potrebbe soccombere).

Lavoro, una sentenza che fa ben sperare

(Questo articolo è stato pubblicato il 7 aprile 2021) La Corte costituzionale, sulla base di una questione sollevata a Ravenna, ha esteso la tutela...

Taranto tradita sulla ex Ilva

Una sentenza politica. Taranto è stata tradita e adesso la ex Ilva, “Acciaierie d’Italia”, potrà continuare ad avvelenare il territorio. È una doccia fredda...

Ilva, il ritardo della politica

L’Italsider, che poi sarebbe diventata l’Ilva, era un mostro potente e immortale. La famiglia Riva, industriali del Nord, nel 1994 comprò dall’Iri di Romano Prodi l’acciaieria più grande d’Europa, che produceva dodici milioni di tonnellate di acciaio all’anno. Per loro fu un affare. E la fabbrica si impossessò della città. Riva assunse molti giovani operai, soprattutto della provincia allargata. E investì in attività finalizzate a un consenso sociale nella città.

Diecimila operai diretti e quattromila quelli delle ditte d’appalto. Sembrava un’acciaieria destinata a vivere a lungo, anche perché, fallito il sogno del quinto centro siderurgico di Gioia Tauro (1970), chiusa l’Italsider di Bagnoli (anni Ottanta), riconvertito il ciclo a freddo in Liguria (anni Novanta), rimaneva solo Taranto come acciaieria a ciclo integrale. Sembrava un destino segnato. I riflettori nazionali erano spenti su Taranto, se non quando salì alla ribalta il sindaco Giancarlo Cito, il leghista del sud.

Lavoro, una sentenza che fa ben sperare

La Corte costituzionale, sulla base di una questione sollevata a Ravenna, ha esteso la tutela del lavoratore licenziato, ripristinando in parte la reintegrazione nel...