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Una sconfitta che dovrebbe far ritornare a sognare
Che botta. Un terremoto. Ci fu una copertina del “manifesto”, il giorno del trionfo di Berlusconi, quasi trent’anni fa. Fondo nero, lampadina al centro di una stanza. Lampo di luce e un sinistro “click”. Come dire, “adda passà ’a nuttata”. Poco tempo dopo quel voto, con il suo buio, ci fu un incoraggiante 25 aprile a Milano. Ecco, la sconfitta elettorale di domenica e lunedì, in un quarto dell’Italia (Lombardia e Lazio), lascia più solo quel popolo indomito che, nonostante tutto, in questi anni ha combattuto per riaffermare valori e politiche di un fronte progressista, di sinistra, popolare e cattolico-democratico. E che ha tenuto accesa la fiammella della solidarietà e delle politiche inclusive del welfare.
Tutto questo oggi scricchiola e domani forse non ci sarà più. Dispiace profondamente dovere riconoscere l’onda alta di Giorgia Meloni che, dopo quattro mesi, rischia di trasformarsi in uno tsunami che potrebbe cancellare la storia repubblicana nata dalla Resistenza e dalla sconfitta del nazismo e del fascismo. Che ci porta fuori dall’alveo dell’Europa degli Spinelli, dei Brandt, dei Mitterrand che si sono susseguiti nel tempo. Oggi il nostro orizzonte sembra essere Visegrad, mentre si rinsalda l’asse Parigi-Berlino. Sempre di più filoatlantisti, e sempre più giustizialisti con i deboli e accondiscendenti con i potenti.
Il nome del partito
Nel mediocre dibattito precongressuale del Partito democratico spicca la proposta di aggiungere al suo già anodino nome quello, piuttosto anodino a sua volta, di “del lavoro”. È un po’ la questione che si pose nel momento della (peraltro tardiva) rottura con Renzi: il “movimento democratico e progressista” di Bersani e Speranza prese il nome di Articolo uno, proprio in riferimento a quella centralità del lavoro su cui sarebbe “fondata” la Repubblica italiana. Peccato che quella dizione fosse, già ai suoi tempi, una formula di compromesso proposta da Fanfani, e accettata alla fine anche dalle sinistre che nella Costituente avevano proposto un’altra espressione, molto più netta e decisa: “L’Italia è una Repubblica di lavoratori”.
La differenza non è di poco conto. Se si parla di lavoro in generale, infatti, ci possono stare dentro anche i capitalisti, gli oppressori di ogni genere, i capimafia e i loro tirapiedi – tutti svolgono un “lavoro”. Altra cosa, e soprattutto nel 1947, era il riferimento ai “lavoratori”, o al “popolo lavoratore”, che costituiva l’asse portante dei partiti di classe. Ovvio che per l’interclassismo democristiano si dovesse cercare un escamotage in grado di accontentare un po’ tutti. E così andò. Se però quello che già allora si era profilato come un compromesso, viene oggi rilanciato come una grande trovata, beh, ciò vuol dire che si è messi proprio male. I partiti del lavoro o laburisti, del resto, hanno tradizionalmente fatto parte dell’ala destra del movimento operaio, collegata in modo stretto a un rivendicazionismo puramente sindacale. Non è un caso che nemmeno Filippo Turati (riformista, sì, ma non “di destra”) abbia mai preso in considerazione la proposta di Rinaldo Rigola, segretario della Confederazione generale del lavoro, che – di destra in destra – fece una brutta fine diventando un collaboratore del corporativismo fascista.
A proposito di un libro di Achille Occhetto
Michail Gorbaciov: il sorriso senza denti
La storia lo ha già giudicato. Michail Gorbaciov ha dato un verso pacifico e tranquillo al Novecento come “secolo breve”, consumandosi nel tentativo di salvaguardare l’essenza di un regime che non ha più trovato modo di funzionare. Le celebrazioni della sua vita – e soprattutto della traccia che lascia nel mondo – sono alluvionali. Ed è proprio questo il momento per leggere la sua traiettoria come una grande lezione per la sinistra. Achille Occhetto, nella sua improvvisata intuizione di usare la crisi gorbacioviana per trovare una nuova via al socialismo italiano, indubbiamente comprese meglio di altri il carattere di quell’esperienza. Dopo Breznev, l’iceberg sovietico doveva trovare una rotta. Andropov proponeva una soluzione cinese, cercando di tradurre nell’indolente e disincantato linguaggio russo la ricetta di Deng: “arricchitevi”. Un ritorno alla Nep di leniniana memoria, con in più la suggestione tecnologica. Dopo l’intermezzo di Černenko, l’elezione del giovane caucasico fu salutata dal coriaceo Gromyko con la famosa definizione: “lo conosco bene, sorriso suadente ma denti di acciaio”. Il dentista, però, non fu propriamente abile con il capo sovietico.
Nikolaj Ryzkov, uno dei primi collaboratori al governo di Gorbaciov, qualche anno dopo l’inizio della perestroika, quando si capì bene che le velleità riformatrici erano sul binario morto, mi raccontò, in un’intervista al Gr1, la sua versione del tentativo del nuovo segretario: “Tutto nasce con Andropov – mi disse –, quando dopo la sua elezione a segretario riunì al Cremlino la sua squadra. C’erano i giovani come Gorbaciov e io, c’era Ligaciov, allora ancora considerato un riformatore, c’era il team degli economisti del Kgb. Andropov ci raccontò questa storia: nel 1975, ci disse, come capo del Kgb inviai al compagno Breznev un rapporto riservato in cui gli descrissi l’avvio, sulla costa occidentale americana, in California, della nuova rivoluzione microelettronica che moltiplicava la potenza industriale dell’Occidente. Gli dissi che avevamo poco più di cinque anni per agganciare questo nuovo processo, altrimenti saremmo stati sonoramente sconfitti. A questo punto Andropov guardò il calendario: siamo ora nel 1982, l’Urss non ha fatto niente per recuperare il gap con gli Usa, dobbiamo trasformare una sconfitta in una ritirata condivisa”. Questa era la perestroika, concluse amaramente Ryzkov.
Ritratto di Carlo Calenda
Rivoluzione luxemburghiana?
A Colombo, nello Sri Lanka, qualche settimana fa una folla pacifica ma determinata, come si è potuto vedere dalle immagini televisive, si è riversata nel palazzo del potere. Il presidente Rajapaksa era fuggito con tutto il suo clan. A vincere la partita, dopo mesi di manifestazioni e di proteste, è stato un movimento di massa privo di leader, secondo quella che – con una certa forzatura, d’accordo – si potrebbe definire una rivoluzione luxemburghiana. La concezione di Rosa Luxemburg era caratterizzata infatti dall’idea di una “spontaneità delle masse” che, a un certo punto, dinanzi a un crollo dell’economia, avrebbe dato vita a un processo rivoluzionario.
Ora – fatte le debite proporzioni, e considerando che quella dello Sri Lanka è semmai una rivoluzione politica, cioè un cambio di regime in senso democratico, e non una rivoluzione sociale come quella immaginata da Rosa – è proprio l’elemento della “spontaneità”, ossia il contrario di qualsiasi direzione esercitata da un’avanguardia organizzata, che balza agli occhi negli avvenimenti dello Sri Lanka. Qualcosa di analogo al rovesciamento di Ben Ali in Tunisia nel 2011. O alla lunga, e alla fine sventurata, vicenda che cominciò in quello stesso anno in Egitto. Con la differenza, per nulla secondaria, che in quei Paesi dell’Africa del Nord erano al comando da decenni delle dittature vere e proprie, mentre nello Sri Lanka il presidente, secondo una qualche forma di democrazia, era stato eletto nel 2019.
Uiguri, i nemici interni della Cina
Contro la guerra, una Zimmerwald pacifista?
Chi, quale soggetto, quale forza politica organizzata potrebbe proporre quella nuova Zimmerwald di cui ha parlato Sandro Mezzadra, e della quale certo ci sarebbe bisogno? Zimmerwald è il nome di una località della Svizzera in cui, nel settembre del 1915, si tenne la conferenza del socialismo internazionalista contrario alla guerra: una pagina memorabile nella storia della sinistra europea, che vide la partecipazione dell’intero Psi (compresa la sua componente riformista turatiana, che solo dopo Caporetto conobbe una sbandata “patriottarda”), e naturalmente dei bolscevichi che, pur battuti nel voto sulla risoluzione finale, poterono lanciare la loro parola d’ordine radicale di “guerra alla guerra”; mentre oggi la pur compromissoria formula di “né aderire né sabotare”, che era quella del massimalismo italiano, apparirebbe come una sorta d’insostenibile chimera.
Magdalena Andersson, la più tirchia d’Europa
La ministra delle Finanze svedese, Magdalena Andersson, è diventata nei giorni scorsi presidente del Partito socialdemocratico e si appresta a succedere come premier a Stefan Löfven, che guida un esecutivo appoggiato da centristi, ecologisti e Partito della sinistra. Una formula politica, questa, che ha avuto lo scopo (dopo le elezioni del 2018, in cui i socialdemocratici non hanno raggiunto più del 28% dei voti) di mettere in un angolo i conservatori e l’estrema destra. La notizia potrebbe rallegrarci, perché – perfino in una Svezia che è molto avanti nel protagonismo femminile nella vita sociale – si tratta della prima volta di una donna.
Ma c’è un ma. Lei stessa si è autodefinita la più tirchia dei ministri europei, avendo schierato il suo Paese con quel gruppo dei cosiddetti “frugali” che hanno opposto molte difficoltà alla realizzazione del piano post-pandemico europeo: quello, per intenderci, che sta dando un sacco di soldi all’Italia. Le ragioni di tale avarizia furono illustrate da Andersson in un’intervista: come potremmo spiegare ai nostri elettori e ai nostri pensionati, i quali pagano tasse elevatissime, che il loro denaro deve andare a Paesi come la Spagna e l’Italia in cui ci sono tasse più basse o una forte evasione fiscale? La domanda non fa una piega. Solo che la soluzione del problema non sta nell’essere “frugali”, quanto piuttosto in un’armonizzazione delle politiche fiscali all’interno dell’Unione europea.