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Cospito e Berlusconi, un unico canovaccio

Il ventennio berlusconiano ci aveva lasciato un Paese stremato dopo un costante e prolungato terremoto che, in quegli anni Novanta e nel primo decennio del nuovo secolo, aveva minato alle fondamenta i valori della nostra Carta costituzionale. Nell’era berlusconiana si è abbassata sempre di più l’asticella della moralità pubblica, ed è diventata abnorme l’invasività del conflitto d’interessi. Quello di Berlusconi si è tradotto nella capacità di condizionare e modificare il sistema di regole e di leggi. Ricordate la depenalizzazione del falso in bilancio o la legge Cirielli che allungava o riduceva a fisarmonica i tempi della prescrizione?

Oggi il tribunale di Milano ha assolto Silvio Berlusconi per la vicenda delle “olgettine”, perché le ragazze dovevano essere sentite come indagate di reato connesso, quindi potevano anche mentire o fare scena muta, e non come testimoni. Il Cavaliere è stato “riabilitato” dai suoi, e da una propaganda che lo ha proposto come un martire che ha vissuto un calvario decennale, che lo ha visto perseguitato dai magistrati. Il fatto che, da Parigi, nel corso di una visita istituzionale, Berlusconi avesse chiamato la questura di Milano per far rilasciare la “nipote di Mubarak” per evitare un incidente diplomatico, e avesse mandato in questura la sua “consigliera ministeriale”, Nicole Minetti, a prelevare la minorenne che “sparlava” delle serate ad Arcore, non vuol dire nulla secondo loro.

Gli inciampi del governo Meloni ai suoi cento giorni  

Quanto durerà il governo Meloni? “Vogliamo garantire stabilità e rimanere al governo per cinque anni”: parole e musica di Antonio Tajani, ministro degli Esteri, da molti anni la figura istituzionale di maggior rilievo dell’entourage di Silvio Berlusconi. Non solo non sarà facile politicamente tenere fede a tali promesse, per Giorgia Meloni e i suoi alleati di complemento, ma sarà impossibile tecnicamente, se si va avanti, come tutti i big della maggioranza di destra-centro dicono di voler fare, con gli ambiziosi programmi di revisione degli equilibri costituzionali. Revisione che dovrebbe passare attraverso l’intervento sull’autonomia regionale differenziata con una semplice legge ordinaria (dato che la sciagurata iniziativa ha le sue radici nella riscrittura del Titolo V della Carta che risale al 2001 e porta le impronte digitali del cosiddetto centrosinistra) e attraverso un progetto di riforma della Costituzione per introdurre il presidenzialismo, il semipresidenzialismo o il “premierato forte”. Gli alleati continuano da mesi a punzecchiarsi sulla tempistica delle due riforme, parallela o disassata a seconda che si parli con meloniani, salviniani o berlusconiani; ma una cosa è certa: se passasse una revisione della forma dello Stato e/o della forma di governo, il Quirinale come lo conosciamo ora sarebbe esautorato, il rapporto fra le Camere e gli esecutivi risulterebbe totalmente stravolto. Quindi il giorno dopo si dovrebbero convocare nuove elezioni. Cinque anni? Anche meno, decisamente meno.

Per ora l’apparato comunicativo della maggioranza, soprattutto di Fratelli d’Italia, punta tutto sui “cento giorni”, traguardo simbolico attraversato senza particolari scossoni, vantando presunti successi per l’andamento del mitico spread sui titoli pubblici e indici di Borsa col segno più, visti come segnali di gradimento dei mitici “mercati” nei confronti della coalizione governativa. Del resto, il consenso dei “mercati”, da qualche decennio a questa parte, è assai più ricercato da gran parte dei leader politici, rispetto a quello degli elettori. Non sono certo loro i primi a prenderlo come punto di riferimento decisivo per l’azione politica. Carlo Calenda, scoppiettante leader di una opposizione non troppo ostile, ricorda non a caso nel contro-bilancio dei cento giorni compilato sul “Foglio” con una serie di pareri di politici e opinionisti vari, che Meloni “ha seguito pedissequamente”, nella legge di Bilancio, “i provvedimenti che Mario Draghi aveva pianificato”. Al momento, prendendo per buoni i sondaggi più recenti, non solo gli operatori finanziari ma anche gli elettori concedono un certo grado di fiducia alla presidente del Consiglio (il suo credito personale oscilla grosso modo fra il 36 e il 46%, nelle diverse rilevazioni demoscopiche) e al partito vincitore delle elezioni, che dal 26%, raccolto nelle urne lo scorso settembre, è stimato oltre il 28: non sfonda, ma è comunque saldamente in testa alle preferenze degli italiani, fratelli o sorelle che siano.

Il governo fuori dal seminato sul caso Cospito

“Azioni del genere non ci intimidiranno. Lo Stato non scende a patti con chi minaccia, tantomeno se l’obiettivo è far allentare il regime detentivo più duro per i responsabili di atti di terrorismo”. Netto, il governo Meloni sulla vicenda di Alfredo Cospito, detenuto al 41/bis per una serie di attentati. Ricordate il caso Moro? Lo Stato non poteva e non doveva trattare con le Brigate rosse. Per non legittimare il terrorismo. Tutti sappiamo com’è andata a finire, con il povero Moro trucidato dai terroristi assassini. Ecco, oggi il governo Meloni sembra voler evocare quella terribile stagione per non cedere a una richiesta di attenuazione del regime carcerario. Rispondendo così alla “piazza” anarco-insurrezionalista che ha messo in campo una offensiva violenta, con attentati alle sedi diplomatiche italiane in Grecia, Germania e Spagna. E, nelle ultime ore, ha provocato incidenti con le forze di polizia a Roma, in piazza Trilussa (quarantuno anarchici denunciati), fatte esplodere due molotov (sabato notte) al commissariato di polizia del Prenestino, incendiato auto della polizia a Milano e della sede TIM di via Val di Lanzo a Roma.

Non è in discussione la certezza della pena. Alfredo Cospito è un anarco-insurrezionalista della Fai (Federazione anarchica informale), autore di diversi attentati, per i quali sta scontando la pena in carcere. È giusto che sia così. Ma non è questa la materia del contendere. Riassumiamo l’oggetto della disputa proponendo due sole questioni. La prima: è giusto che Alfredo Cospito sia detenuto al 41/bis, cioè al regime carcerario duro? La seconda: pur non avendo commesso omicidi, Cospito rischia l’ergastolo in quanto autore di un attentato alla Scuola allievi carabinieri di Fossano che, per la Cassazione, va perseguito come “strage politica”. La procura generale di Torino ha chiesto la pena dell’ergastolo, e il processo è sospeso in attesa della pronuncia della Corte costituzionale.

Nordio, come la destra intende smontare il sistema giudiziario

Le recenti audizioni parlamentari del neo-guardasigilli, Carlo Nordio, hanno riproposto l’armamentario ideologico di una destra che mira da sempre a colpire l’indipendenza della magistratura....

Leggi melonissime?

Primo decreto legge, ieri 31 ottobre, e prima conferma del giro di vite che un governo in camicia un po’ bianca e un po’ nera intende dare al Paese (alla “nazione”, come usa dire il presidente del Consiglio, senza rendersi conto della ridicolaggine dell’articolo maschile). Si tratta di un decreto cosiddetto “omnibus”, che contiene cioè un po’ di tutto – secondo una ormai consolidata, per quanto deprecabile, tradizione –, ma il punto ovviamente non è questo, quanto piuttosto il suo contenuto. Viene introdotta una nuova fattispecie di reato: quella del delitto di rave party, si potrebbe dire. Pene severissime per chi organizza feste o raduni con più di cinquanta persone in aree di ogni tipo, anche dismesse: il che potrebbe includere, a discrezione di prefetti o organi di polizia, qualsiasi occupazione di suolo pubblico o privato – anche quelle, eventualmente, a fini di recupero sociale. Nello specifico, si tratterà di vedere come sarà tradotto in legge il decreto, ma le premesse appaiono pessime.

Altro punto controverso, quello che riguarda l’“ergastolo ostativo”, difeso a spada tratta dalla premier e oggetto, invece, di critica da parte del suo ministro della Giustizia, il più liberale Nordio. A monte, c’è un pronunciamento da parte della Corte costituzionale. Non è ammissibile che un ergastolano – sia pure un incallito criminale – non possa accedere ai benefici di legge (come, per esempio, uscire dal carcere e poi rientrarvi nel corso della giornata) se non sia divenuto, nel frattempo, un collaboratore di giustizia. Ciò significa venire meno al principio di una pena non spietatamente punitiva ma rieducativa – e si potrebbe dire che configuri una sorta di ricatto di Stato nei confronti del detenuto: o ti penti o butto via la chiave della tua cella.