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Manovra economica, i fischi e gli applausi
Fischi e applausi per la prima assoluta del governo Meloni. Le critiche alla manovra sono tante, e non arrivano solo dalla società civile e dai sindacati (la Cgil ha indetto già scioperi territoriali insieme alla Uil), ma anche da luoghi istituzionali importanti, come la Banca d’Italia, la Corte dei conti, l’Ufficio parlamentare di Bilancio e via dicendo. Tra i no alla manovra scopriamo varie sorprese; ma abbiamo ascoltato anche applausi più o meno rumorosi. Il teatro della comunicazione è sempre più da interpretare. Cominciamo dagli applausi.
Lucio Caracciolo, ispiratore di “Limes” e grande divulgatore della geopolitica, ha fatto notizia per le sue dichiarazioni su uno degli aspetti più controversi e antichi: il ponte sullo Stretto. Si tratta di un’opera da sempre osteggiata, ma che andrebbe finalmente realizzata “perché è una priorità strategica per l’Italia”. A Caracciolo non è piaciuta la presa di posizione critica della commissaria europea ai Trasporti, la romena Adina Valean, secondo la quale per finanziare il progetto serve un progetto (lapalissiano). Caracciolo spera che il governo Meloni riesca ad attivare quel progetto e che non fallisca come tutti i governi precedenti, dal 1876, quando il ministro Giuseppe Zanardelli diceva: “Sopra i flutti o sotto i flutti, la Sicilia sia unita al continente!”.
Previsioni sulla legislatura che sta per aprirsi
È piuttosto improbabile che il governo di Giorgia Meloni riesca a durare cinque anni e a condurre a termine la diciannovesima legislatura repubblicana. Su questo, come si sa, puntano tutto gli improvvisatori Calenda e Renzi per potere venir fuori con il loro “ecco, l’avevamo detto noi!”. Del resto Renzi è un consumato playmaker di giochini parlamentari: nella legislatura appena trascorsa ha reso possibile il governo Conte 1 (quello dei grillini con la Lega) grazie al suo intransigente non possumus, salvo poi transigere l’anno seguente alleandosi proprio con i grillini (il Conte 2), provocando una scissione nel gruppo del Pd, e diventando così l’ago della bilancia al Senato. Il che gli ha permesso di affossare Conte tirando fuori dal cappello Draghi (diventato poi il beniamino anche di Letta), secondo i desiderata della Confindustria e di altri. Insomma Renzi, e Calenda con lui, sono i signori delle “larghe intese”. Peccato che con il loro 8% scarso alle elezioni, con una ventina di deputati e solo nove senatori, non siano determinanti da nessuna parte. Sarà per la prossima volta.
Il pallino di questa legislatura è nelle mani di Berlusconi (almeno finché si trascinerà in vita). Come avevamo scritto qui, d’altronde, Giorgia Meloni è postfascista non meno che postberlusconiana; anzi più la seconda cosa che la prima, a dire il vero. Nel prefisso “post-” sono impliciti alcuni dei tratti di quello che c’era in precedenza: se l’estrema destra europea ricicla alcuni degli elementi dei fascismi storici, ciò non vuol dire che non innovi anche un po’ (si pensi, per dirne una, al “femminismo” di Meloni, alla sua decisione nell’affermarsi, qualcosa di sconosciuto ai tempi di Mussolini). In modo analogo, il governo Meloni sarà differente dai governi Berlusconi del passato: ma ne sarà anche, sotto più di un profilo, la prosecuzione. Il berlusconismo può essere camaleontico – cioè una cosa e il suo contrario – almeno quanto seppe esserlo il fascismo: quel populismo mediatico, che sdoganò i vecchi arnesi del Movimento sociale per i propri interessi più aziendali che politici (nel 1994), può ergersi adesso a difensore di una moderazione “europeista”.
Il “mistero” di un Pd votato alla sconfitta
È arcinoto, e su “terzogiornale” ci siamo ritornati più volte, che il Pd ha scelto di “passare” in queste elezioni (come nel gioco delle carte) e di dare partita vinta all’avversario, intenzionato soltanto a misurare l’entità della sconfitta che si profila, soprattutto mediante il giochino del “chi arriva primo” tra Letta e Meloni: risultato del tutto ininfluente ai fini della costruzione di una maggioranza parlamentare, ma che comunque – nel caso di un successo peraltro sempre più improbabile – potrebbe salvare il gruppo dirigente piddino, quando si tratterà di una resa dei conti intorno a una linea politica che, già da ora, appare fallimentare. Si poteva, infatti, perdonare l’avventurismo grillino che, timoroso di perdere ulteriormente voti, ha minato il fulgido percorso del governo Draghi, e proseguire nell’alleanza con i 5 Stelle. Oppure si poteva cercare di mettere insieme una coalizione centrista, con un programma di governo draghiano, e allora bisognava trattare, insieme, con i due improvvisatori Renzi e Calenda. Scartata senza troppe spiegazioni la prima ipotesi e mai risolutamente praticata la seconda (avendo per giunta subìto il rapido voltafaccia di Calenda), la segreteria di Letta vacilla.
Tutto ciò è chiaro. Quello che è più difficile da comprendere è il totale silenzio all’interno del Pd. Lasciamo stare i 5 Stelle, con le loro complicate procedure di consultazione, ancora in parte viziate dall’originario morbo “antipolitico” – ma il Pd? Questo partito ultra-composito, formato da una quantità di componenti e potentati, come mai si è mostrato così passivamente compatto nell’accettare la perdente tattica elettorale del suo segretario? Rispondere a questa domanda sarebbe un’impresa non da poco per dei sociologi della politica, o forse per degli psicologi della politica. Come mai un partito, che si vuole democratico e di centrosinistra, offre così palesemente il fianco alla concreta possibilità di orbanizzazione del Paese?
Genietti malefici o comici della commedia all’italiana?
Tra Renzi e Calenda, quale dei due le destre dovrebbero ringraziare con maggiore abbondanza di salamelecchi? Ce lo si chiede, in questa vigilia elettorale che vede il cartello formato da Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia, nettamente favorito. Chi le ha avvantaggiate di più? Fermo restando che il mancato contrasto alle destre viene principalmente dalla funzione del Pd, il partito-sistema che non sa vedere i mutamenti e le radicalizzazioni della realtà sociale italiana, attenendosi a un moderatismo privo di spessore, in cui le spruzzate di sinistra nelle sue candidature non possono cancellare la strutturale insufficienza del “partito sbagliato” (come lo ha definito Antonio Floridia), una risposta alla domanda potrebbe essere: in egual misura entrambi, visto che si presentano insieme alle elezioni. Ma gli antefatti contano almeno quanto i fatti: e se è vero che, con il fuggire subito dopo avere sottoscritto un accordo con il Pd, Calenda ha dato il colpo di grazia finale in un certo numero di collegi uninominali ancora contendibili, è anche vero che l’avanzata delle destre viene da più lontano (e nemmeno sarebbe giusto imputarla soltanto a Draghi e al suo governo, che indubbiamente le ha avvantaggiate, se non altro in virtù della doppia veste con cui esse hanno potuto presentarsi: al governo e al tempo stesso fuori dal governo, con una componente che si è configurata come l’unica opposizione di qualche consistenza in parlamento).
È Renzi, senz’altro, il genietto malefico che da segretario del Pd diede il “la”, nel 2018, alla risalita delle destre, messe in difficoltà dal qualunquismo grillino, che aveva drenato una grossa parte di voti. Come? Con la trovata di evitare qualsiasi accordo con i grillini, rendendo così possibile il primo governo Conte, quello gialloverde, molto spostato a destra, soprattutto per l’ossessiva propaganda anti-immigrati di Salvini. Un anno dopo, doppia giravolta di Renzi: per evitare le elezioni anticipate, governo con i 5 Stelle (il Conte 2) e al tempo stesso scissione dal Pd, con la costituzione dello pseudo-partito di “Italia viva” che, per quanto inesistente, lo rende tuttavia ago della bilancia al Senato (anche grazie all’appoggio del senatore Nencini del Psi postcraxiano, debitore a Renzi di una candidatura sicura alle elezioni precedenti, che gli permette di costituire un gruppo autonomo).
Le (impossibili) dimissioni di Enrico Letta. Un appello
In questi giorni sta succedendo l’inverosimile – ma sappiamo bene quale sia l’origine dell’enorme pasticcio che ne è venuto fuori. Esso non è che la conseguenza di un’unica scelta sbagliata iniziale, quella di avere lasciato cadere, da parte del Pd, il rapporto preferenziale, faticosamente costruito negli anni, con il Movimento 5 Stelle. Ora non è più il momento delle balle (di cui sono specialisti i due comici della commedia all’italiana, Carlo Calenda e Matteo Renzi). Con il modo di presentazione alle elezioni in cui il Pd si sta cacciando – pur con il positivo apporto di Europa verde e Sinistra italiana, e, a quanto pare, di +Europa – il rischio non è quello di una semplice vittoria del cartello delle destre ma di una débâcle di proporzioni immani, in cui persino la Costituzione sarebbe a rischio (si ricordi che, con una maggioranza dei due terzi dei parlamentari, è possibile cambiarla senza passare per un referendum). È rimasta solo una settimana per ricucire con i 5 Stelle di Conte e arrivare a un patto elettorale.
Il responsabile principale di quanto accaduto è Enrico Letta. È anzitutto lui, in quanto segretario, che si è fatto abbindolare nel tira e molla con Calenda, e perciò dovrebbe farsi da parte. Non si tratterebbe di vere e proprie dimissioni – perché un partito non potrebbe affrontare le elezioni con un segretario dimissionario –, ma occorrerebbe, da parte di Letta, il riconoscimento di essersi infilato nell’impasse, lasciando ai suoi due vice, Giuseppe Provenzano e Irene Tinagli, il difficile compito di trattare con Conte e i suoi.
L’allodola e lo struzzo: Calenda indica alla sinistra come si costruisce...
Rimane grande la confusione sotto al cielo del centrosinistra, e – a differenza di quanto era portato a credere il presidente Mao – la situazione non appare per nulla eccellente. Non era difficile immaginare che l’intesa fra Letta e Calenda, per il modo in cui è maturata e i contenuti che l’hanno caratterizzata, suscitasse un vespaio di polemiche e rivalse. Si tratterebbe di un pasticcio fra un cavallo e un’allodola – dice qualcuno –, in cui però il gusto dominante, incredibilmente, sarebbe quello dell’esile pennuto.
In realtà, la dinamica e gli effetti di quell’intesa, che assegnano ad Azione (con +Europa) il 30% dei seggi dell’intero centrosinistra, ci dice che l’allodola è stata pesata almeno come uno struzzo. E non a caso. In poco più di un anno, il parlamentare europeo eletto nelle liste del Pd – e poi uscito dal partito sbattendo la porta, dopo le intese con i grillini – ha messo in campo un concentrato di opportunismo politico, acrobazia tattica e lucido marketing, che gli ha permesso di bruciare tutti i cantieri aperti di partiti in costruzione, arrivando rapidamente a mettere il tetto al suo edificio politico. Al netto di considerazioni di merito, sarebbe utile capire come questo percorso sia stato possibile, nonostante in questi ultimi trent’anni (diciamo dal disfacimento del Pci) la corsa a costruire partiti sia stata più affollata della maratona di New York.
Come si ricatta il Pd
Non c’è dubbio che Enrico Letta sia stato ricattato da Carlo Calenda e da Benedetto Della Vedova, che per la cronaca sarebbe il leader di +Europa: un capitano di lungo corso, questo, proveniente dai radicali, passato per il Popolo della libertà (che fu per un periodo il nome della formazione berlusconiano-postfascista), e uscitone poi con Gianfranco Fini (do you remember?). Alleati con il Pd di Renzi nel 2018, quelli di +Europa, senza Calenda, presero il 2,5% dei voti: cioè non superarono lo sbarramento del 3% ed elessero nei collegi uninominali i propri parlamentari (solo tre, se non andiamo errati), tra cui Emma Bonino al Senato. In tutto e per tutto, questi residui dei radicali di una volta devono la loro sopravvivenza al Pd e al suo elettorato. Stesso discorso per Calenda: se un personaggio del genere esiste, lo deve al fatto di essere stato presente nei governi di Letta e di Renzi, e poi alla circostanza di essersi fatto eleggere, nelle liste del Pd, al parlamento europeo.
I due hanno potuto ricattare politicamente Letta – con la minaccia di presentarsi alle elezioni per conto proprio, sulla base di sondaggi che assegnano loro il 4 o 5% dei voti – perché il segretario del Pd si è reso ricattabile. Avendo rinunciato al “campo largo”, si è dovuto acconciare in un campo strettissimo, e quasi del tutto improvvisato. Se i due si fossero presentati da soli, tra i già pochi collegi uninominali che il Pd riuscirà a vincere, ben dodici alla Camera e quattro al Senato sarebbero andati persi. Letta annaspa e per questo è ricattabile. Risultato? Un accordo monstre che assegna a una piccola forza – fatta di due componenti, Azione e +Europa – il 30% delle candidature nei collegi uninominali. Come se non bastasse, i due hanno imposto che non ci siano nei collegi candidature “divisive”. Il che, da un punto di vista numerico, è una cretinata. Se c’è infatti qualche speranza – in verità minima – di togliere dei voti ai berlusconiani in certe zone, poniamo, della Lombardia, ossia in una realtà dominata dal cartello delle destre, è proprio là che va schierata una berlusconiana fuoriuscita e “divisiva” come Gelmini, per cercare di competere. Se fai scendere in campo uno sconosciuto ex radicale o un altro qualunque scelto da Calenda, buonanotte!
Ritratto di Carlo Calenda
Un partito del “reverse flow” per battere la destra?
Reverse flow: sembra questa la formula destinata a caratterizzare il prossimo dibattito post-elettorale e soprattutto a identificare la nuova natura del sistema produttivo nazionale rispetto all’evoluzione europea. Reverse flow, o “flusso inverso”, è il termine con il quale si identifica il processo che rovescia il condotto degli oleodotti. Come spiega in una recente intervista su “Repubblica” Michael Stoppard, vicepresidente di S&P, l’agenzia di analisi delle strategie degli approvvigionamenti energetici globali, “al momento le pipeline sono state concepite per trasportare gas e petrolio da nord a sud e da est a ovest, ma possono essere riprogrammate e invertire il ciclo”.
Questa opportunità renderebbe plausibile la strategia che era stata definita dal governo Draghi: costruire un’intelaiatura di alleanze e forniture capace di rendere il nostro Paese il nuovo hub di raccolta e smistamento dei flussi energetici dall’Italia verso i Paesi nordeuropei, emancipando l’intero continente dalla dipendenza dalla Russia. Una strategia dagli evidenti risvolti geopolitici che – fa intendere Stoppard – potrebbe non essere estranea alla decisione di far cadere l’esecutivo di Draghi, presa proprio dalle forze più vicine al Cremlino.
Il moderatismo italiano e i suoi destini
Un principio fatale regge i destini del moderatismo italiano, e lo si può esprimere così: “Per quanti sforzi facciate per collocarvi al centro dello schieramento politico, ci sarà sempre un altro che si posizionerà più al centro di voi”. È una sorta di centrismo sempiterno, quello scaturito dalla fine dell’unico partito che abbia coperto tutte le sfumature del centro per oltre quarant’anni: la Democrazia cristiana. Dopo di questa, c’è stata una diuturna corsa al centro da parte di partiti, partitini, o semplici frammenti. L’ultimo in ordine di apparizione ha preso il nome di “Insieme per il futuro”: e i malevoli già pensano che il “futuro” consisterebbe nel conservare almeno un posto di ministro in un prossimo governo, qualunque sia la maggioranza di cui quello sarà espressione (del resto, l’attuale responsabile degli Esteri ha già dimostrato, nella legislatura in corso, capacità indubbie al riguardo). Di Maio si posiziona un po’ più al centro rispetto a Conte – che pure è al centro, ma con qualche lieve inclinazione a sinistra. E nei confronti del povero Letta? Ancora più al centro, naturalmente.
C’è una difficoltà, però. Pare che sia in cantiere un’altra iniziativa, più centrista di tutti i centrismi possibili, che dovrebbe aggregare anche Renzi, e forse perfino l’amico-nemico Calenda (che di centro tuttavia non si autodefinisce), intorno al sindaco di Milano Sala, sponsor un imprenditore e deputato dallo specchiato curriculum centrista – Forza Italia-Scelta civica-Pd-Italia viva –, uno del varesotto che ci metterebbe i soldi. Si tratterebbe di una “cosa” più draghiana di quanto siano draghiani tutti gli altri. Che farà a quel punto il draghianissimo Di Maio? Sarà o no della partita?