
Luglio 2025, sette premi Nobel per l’economia – da Paul Krugman a Esther Duflo, da Joseph Stiglitz a Daron Acemoglu – firmano su “Le Monde” un editoriale storico. Chiedono alla Francia di fare da apripista per una tassa patrimoniale minima del 2% sui patrimoni superiori ai cento milioni di euro. L’idea, proposta dall’economista Gabriel Zucman, riguarda poche migliaia di famiglie, ma potrebbe generare entrate decisive per finanziare sanità, scuola e transizione ecologica. Miliardari come Elon Musk o Bernard Arnault, infatti, pagano oggi in percentuale meno tasse di un insegnante o di un medico. In Francia, la loro aliquota effettiva sul reddito è dello 0,1%. Negli Stati Uniti, dello 0,6%. E nel Regno Unito la situazione non è molto diversa.
Come ha scritto sul “Guardian” Stephanie Brobbey, ex avvocata per la gestione di patrimoni milionari e oggi attivista per la giustizia fiscale, il paradosso è evidente: chi lavora per vivere paga più tasse di chi guadagna semplicemente possedendo beni. Mentre i comuni cittadini versano imposte sul reddito da lavoro, gli ultraricchi generano profitti da fondi, affitti e plusvalenze, spesso esenti o minimamente tassati. Così, mentre il governo britannico annuncia nuove deregolamentazioni per attrarre capitali, servizi essenziali, come la sanità pubblica e le comunità locali, crollano sotto il peso delle carenze di bilancio. “È un sistema capovolto, che premia la rendita e punisce il lavoro” – scrive Brobbey.
In tutta Europa, poi, questi capitali spesso non sono ottenuti tramite il ritorno di investimenti locali significativi: ancora su “Le Monde” è recentemente uscito un articolo che parlava della Francia come di “una società di ereditieri” (ne scriveva Rino Genovese qui). Se negli anni Settanta il patrimonio ereditato rappresentava il 35% della ricchezza complessiva, oggi è il 60%. Un ritorno all’Ottocento, ma con i grattacieli al posto dei castelli. Oggi, come all’epoca, vale la domanda: che ci fa una persona con cinquanta stanze? O con dieci collier di diamanti? O due jet privati? Se prima il problema era prettamente socioeconomico, ora è anche e soprattutto climatico (abbiamo già visto qui quanto siano impattanti i super-ricchi per il pianeta). Perché in un mondo attraversato da crisi multiple l’estrema concentrazione della ricchezza non è più solo immorale: è insostenibile.
Quella dei premi Nobel è una proposta concreta, scevra di utopismi, che potrebbe partire dalla Francia per arrivare a coinvolgere altri Paesi. E non è un’opinione isolata. In Europa esiste un’iniziativa dei cittadini europei (Ice) promossa da Oxfam, da Sbilanciamoci! e da altre realtà della società civile, per introdurre una tassa europea sui grandi patrimoni. Obiettivo: raccogliere un milione di firme per chiedere alla Commissione europea un’imposta sullo 0,1% più ricco della popolazione. Una misura che permetterebbe di finanziare la transizione ecologica e sociale, senza scaricare i costi su chi fa già fatica ad arrivare a fine mese. Anche perché (come scriveva Paolo Andruccioli qui), secondo un sondaggio Demopolis per Oxfam, il 70% degli italiani sarebbe favorevole a una tassa sui patrimoni superiori ai 5,4 milioni di euro.
Tutto ciò dimostra quanto la società civile sia pronta e l’opinione pubblica matura ad accogliere riforme di questo tipo. A mancare è solo il coraggio politico. Si teme, infatti, l’esodo degli ultraricchi verso altri lidi, senza guardare alle priorità di un pianeta al di là dei confini geografici. Inoltre, l’esistenza di un’élite globale è ben lontana dall’essere preda delle decisioni dei singoli Paesi: è già protetta, blindata e impermeabile alle crisi, quelle che invece vive la maggioranza della popolazione. Questo “secessionismo dei ricchi”, come lo chiamava il sociologo francese Pierre Rosanvallon, è materiale e culturale, ma soprattutto fiscale: “Una democrazia in cui i più ricchi si sottraggono al patto sociale non è più una democrazia, ma un simulacro” – scriveva.
Tassare i grandi patrimoni non è una crociata ideologica. È una scelta pragmatica e di giustizia. Non per punire, ma per riequilibrare. Se ci fosse una tassa globale sui miliardari – secondo Zucman, appena il 2% annuo –, si potrebbero generare 250 miliardi di dollari all’anno. Più del costo annuo dei danni da eventi climatici estremi nel 2023.
Seppure timidi, ci sono stati nel tempo dei tentativi di alzare le percentuali tributarie. Negli Stati Uniti, nel 2012, l’allora presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, provò a proporre una legge per imporre ai milionari un’aliquota minima del 30%, a prescindere dalla fonte del reddito. Ma la proposta non superò il blocco dei repubblicani al Senato. Fu più un gesto simbolico che un progetto di riforma. Eppure, negli anni Settanta i ricchi americani potevano arrivare a pagare fino al 70% di tasse, cosa che ha permesso allo Stato di costruire infrastrutture cruciali. Oggi vediamo invece uno Stato federale in cui i lavoratori pagano, mentre i miliardari lanciano space shuttles, superando la storica agenzia spaziale statunitense Nasa.
In Italia, l’evasione fiscale vale 198 miliardi di euro, quasi il 10% del Pil, mentre la pressione fiscale si concentra sui lavoratori dipendenti e le piccole imprese. Nei primi anni Duemila, Rifondazione comunista lanciò la campagna “Anche i ricchi piangono” – per una patrimoniale. Più di recente, lo hanno fatto Sinistra italiana, Pd, 5 Stelle, e Alleanza verdi-sinistra; ma ogni proposta è stata affossata prima ancora di essere discussa. Un gruppo di economisti italiani (Dalle Luche, Guzzardi, Palagi, Roventini e Santoro) ha dimostrato che il nostro è uno dei sistemi fiscali più regressivi d’Europa. Secondo la campagna “Tax the Rich”, una patrimoniale sullo 0,1% più ricco (circa cinquantamila persone con più di 5,4 milioni di euro) porterebbe fino a sedici miliardi di euro l’anno. Risorse per sanità, scuola, università: sul futuro, insomma.
Da decenni, economisti, sociologi e attivisti denunciano il crescente divario tra l’1% più ricco della popolazione e tutti gli altri. Eppure – nonostante i report, i grafici, le curve, le parole – finora poco è cambiato. La frustrazione nasce dalla perenne mancanza di denaro pubblico, che però si nasconde dietro le fortune di pochissimi. Accumulati in paradisi fiscali, i conti devono essere in parte restituiti al bene comune. Non è impossibile. Sembra l’unica strada per evitare che la nostra epoca, come temeva Hobsbawm, resti un’“età degli estremi”.