Per la terza volta consecutiva, dopo dieci anni di governo, il premier indiano Narendra Modi si è reinsediato, al termine di una lunghissima consultazione elettorale che ha preso il via ad aprile. Ma, oltre a dover fare i conti con un successo ridimensionato rispetto agli altri due mandati – che costringerà il suo partito induista estremista Bharatiya Janata Party (Partito del popolo indiano) a fare alleanze con il partito nazionalista Telugu Desam e il populista Janata Dal –, sarà ancora una volta costretto a fronteggiare gli agricoltori che da anni si battono per i loro diritti.
I mesi che hanno preceduto il voto hanno visto i contadini scendere in piazza e sfidare le forze dell’ordine per ottenere un prezzo minimo, al fine di tutelare i propri prodotti e la cancellazione dei debiti contratti con lo Stato. La mancata risoluzione di questa vertenza prima delle elezioni, è senz’altro una delle ragioni del ridimensionamento dei consensi ottenuti dal leader indiano, che, malgrado tutto, ha tra i contadini uno dei punti di appoggio elettorale.
In tutti questi anni, le proteste sono state assolutamente pacifiche, qualcuno le ha addirittura definite gandhiane; malgrado ciò, la polizia non ha esitato a intervenire pesantemente, provocando feriti e procedendo con arresti spesso arbitrari. Come riporta il sito “Agronotizie”, Modi ha dichiarato che non intende soddisfare le richieste portate avanti con questa nuova protesta perché, anche secondo alcuni analisti, farebbero aumentare i prezzi di ventitré colture di almeno il 25%, col rischio di mettere in crisi le filiere e, soprattutto, i consumi. Insomma, le loro richieste sarebbero irrealistiche. Eppure, come spiegato dall’economista agricolo Ashok Gulati al “Financial Times”, “il governo deve ripulire il mercato, in modo che gli agricoltori possano ottenere un prezzo giusto”, magari pianificando interventi a sostegno dell’export, per agevolare gli investimenti nelle campagne e per sostenere i redditi, senza distorcere il mercato.
Questa nuova tappa di una mobilitazione che sembra non finire mai, avviene a quasi tre anni dalla “madre di tutte le battaglie sindacali”, non solo a livello nazionale ma anche planetario. Quello sciopero fu il più importante di tutti i tempi, dal punto di vista delle persone coinvolte. Nel mirino dei contadini era allora la riforma agraria finalizzata, secondo il governo, a modernizzare l’agricoltura attraverso le solite liberalizzazioni, che avrebbero messo in questo caso la gestione di quel settore dell’economia indiana nelle mani di potenti multinazionali. Nello specifico, i lavoratori della terra avrebbero dovuto vendere i propri prodotti direttamente alle aziende private al posto dei mercati all’ingrosso controllati dallo Stato, che garantisce loro prezzi più equi. Apparentemente, la riforma offriva una possibilità in più per gli agricoltori, ma in realtà, nel corso della contrattazione con le potenti aziende del settore, non ci sarebbe stata sicuramente partita considerando che – di fronte a eventuali controversie con le multinazionali – i contadini non avrebbero potuto portarle in giudizio. La riforma si componeva di tre leggi votate allora dal parlamento senza un’adeguata discussione: la Farmers’ Produce Trade and Commerce Act, la Farmers’ (Empowerment and Protection) Agreement on Price Assistance and Farm Service Act, e l’Essential Commodities Act, che, come abbiamo detto, significavano in sintesi meno Stato e più investimenti privati.
Quella vittoria fu conseguita a caro prezzo. Accampati per mesi e mesi dentro delle tende, ben settecento morirono di freddo. Va considerato un dato incredibile: quasi la metà della popolazione indiana, circa settecento milioni, a fronte di oltre un miliardo e trecento milioni complessivi, è impegnata nell’agricoltura. Secondo il sito “Cambia la terra”, che si occupa dei diritti dei lavoratori della terra e dell’agricoltura sostenibile, “gran parte dei contadini indiani hanno piccole estensioni – l’86% delle aziende è inferiore ai due ettari –,ed è priva dei mezzi economici necessari ad aumentare la produttività del terreno e a fronteggiare eventi avversi. Spesso – prosegue la testata – i titoli di proprietà non sono chiari e non consentono di ottenere prestiti. Ciò è particolarmente vero per le donne contadine, che per motivi culturali non possono rivendicare la loro legittima eredità fondiaria”.
Malgrado le potenzialità del settore, è appunto molto complicato per gli agricoltori ottenere maggiori profitti. Dopo il ritiro della legge, Modi si era impegnato a istituire un gruppo di sostegno al settore composto da rappresentanti dei lavoratori e del governo; da allora, nulla è stato fatto in questa direzione. La questione agraria – con tutte le disuguaglianze che ha prodotto nel corso dei decenni, e potremmo dire dei secoli, visto che era presente anche ai tempi della colonizzazione – non è certo una novità nella storia del gigante asiatico. Già nel 1855-56 i due leader, Sidhu e Kanhu, sono stati a capo di una storica ribellione anticolonialista, ricordata ancora oggi dai lavoratori in lotta.
I diversi governi succedutisi hanno preferito utilizzare lo strumento della repressione piuttosto che quello del confronto e della risoluzione del problema. Da allora, sono passati oltre centocinquant’anni ma, come abbiamo visto, siamo più o meno al punto di partenza. Drammatico il ricordo della cosiddetta Rivoluzione verde del 1960. I risultati di quell’evento epocale non furono quelli sperati, perché dei benefici di quella riforma si avvalsero solo una parte degli agricoltori. In questo ambito così difficile era, ed è tuttora, drammatico il fenomeno dei suicidi. Secondo l’Osservatorio Diritti “dal 2013, ogni anno, dodicimila contadini indiani si suicidano. A dare queste cifre da capogiro sono fonti ufficiali. Secondo i dati del National Crime Record Bureau del ministero dell’Interno indiano, tra contadini e lavoratori agricoli, nel 2015 si sarebbero tolte la vita 12.600 persone, il 9% del totale dei suicidi nel Paese. Le vittime sono in netta maggioranza uomini, tra i 30 e i 60 anni, in piena età produttiva”. Tra le cause principali, la bancarotta e l’indebitamento nel 38% dei casi, mentre il 19% riguarda problemi legati alla produzione agricola. È facile per questi lavoratori cadere nella trappola dell’indebitamento. Sono sufficienti un raccolto difficile, la siccità o la necessità improvvisa di effettuare un investimento; oppure ripagare vecchi debiti accumulandone altri, dando così luogo a nuove esposizioni bancarie e a una spirale senza uscita. Questi piccoli quanto indispensabili imprenditori (pensiamo al fatto che la dieta della maggioranza degli indiani è vegetariana) sono a volte costretti a impegnare case e terreni per fare fronte alle difficoltà.
Sullo sfondo, a rendere più difficile la situazione, è l’inadeguatezza del sistema agricolo indiano. Il Paese, sia pure tra mille contraddizioni, è diventato una potenza economica, e la popolazione che ha i mezzi comincia a esigere la creazione di un’industria di trasformazione efficiente e adeguata ai tempi, a fianco a una catena distributiva degna di questo nome. Due ambiti in cui, sicuramente, i privati possono giocare un ruolo positivo. Ma per fare ciò servono – anche in questo caso – equità e modernizzazione nell’ambito della produzione agricola, così da non costringere questi “dannati della terra” a suicidarsi, perché non vedono alcuna prospettiva nelle loro drammatiche esistenze. Insomma, senza un’adeguata redditività, la crescita del settore, che pure ha grandi potenzialità, sarà troppo lenta, rischiando di rallentare lo sviluppo di tutto il comparto alimentare.