Adesso che l’ultima, in ordine di tempo, crisi migratoria tra Polonia e Bielorussia è in via di esaurimento – con “solo” poche centinaia di migranti e richiedenti asilo accampati al freddo nelle foreste al confine con la Polonia, alcune centinaia di iracheni deportati nel loro Paese d’origine e altre migliaia internati in campi di concentramento in Bielorussia –, adesso è il caso di fare alcune considerazioni generali sul “fenomeno” migratorio.
La prima è che c’è una non sorprendente unità di comportamenti dei Paesi ricchi del mondo – dall’Australia al Giappone, all’Arabia saudita, agli Stati Uniti, all’Europa – nei confronti dell’immigrazione da quelli poveri. Tutti i Paesi ricchi, e molti dei poveri, hanno firmato la convenzione delle Nazioni Unite per la protezione dei migranti e richiedenti asilo e i loro leader politici (non tutti, naturalmente, ma i migliori sì), prima di essere eletti, fanno sull’argomento dichiarazioni di alto valore morale, cui spesso poi non corrispondono concrete scelte politiche.
Gli australiani, protetti dagli oceani che li circondano, internano i pochi filippini, vietnamiti e indonesiani che riescono ad arrivare sulle loro coste negli isolotti dove un tempo gli inglesi deportavano i criminali e le prostitute: e lì li tengono anche per anni in un limbo giuridico. I giapponesi non ammettono neppure un migrante, e così Taiwan (in Cina sembra che nessuno voglia andare). I Paesi della penisola arabica trattano di fatto come schiavi i migranti asiatici di cui hanno bisogno per costruire i loro grattaceli, li alloggiano in campi profughi lontani dalle città e, quando hanno finito, li rispediscono nel luogo d’origine. Gli Stati Uniti – Paese di immigrati, si diceva un tempo e si proclama tuttora – hanno invece una secolare tradizione di discriminazione nei confronti di irlandesi, italiani, greci, ebrei, est-europei, cinesi, giapponesi e, naturalmente, africani (ma quelli erano schiavi deportati, non migranti volontari). Oggi si limitano a respingerli al confine meridionale prendendoli a frustate e rispedendo nei Paesi d’origine i pochi che riescono a passare. Gli europei, che così spesso si vantano dei loro valori umanitari, si limitano per lo più a lasciarli affogare nel Mediterraneo (1300 morti nel 2021, fino a oggi) o, com’è avvenuto nelle scorse settimane, morire di freddo nelle foreste.
Non che le cose andassero meglio in passato: i gruppi umani hanno sempre osteggiato, spesso in maniera violenta, l’arrivo sul loro territorio di altri gruppi umani diversi da loro sotto qualche rispetto (lingua, religione, etnia, colore della pelle). Pogrom, stermini, deportazioni di massa, sono stati la regola nei confronti dei migranti, molto più spesso dell’assimilazione che, quando c’è stata, è avvenuta nel corso di generazioni. La differenza con l’oggi sta nello stridente contrasto tra i valori proclamati e sottoscritti dagli Stati nelle convenzioni internazionali e i loro concreti comportamenti.
La ragione è semplice: volta a volta, quando un leader politico ha cercato di seguire principi più umani, allargando le maglie delle recinzioni o praticando qualche breccia nei muri che materialmente o metaforicamente circondano il suo Paese, dopo poco si è trovato a fronteggiare la protesta popolare, più o meno spontanea, più o meno aizzata dai suoi oppositori. Così i leader europei hanno imparato la lezione e, nella speranza di conservare il potere, hanno fatto marcia indietro rispetto ai propositi conclamati.
Così Angela Merkel, dopo avere accolto nel 2015 un milione di profughi siriani, si è trovata di fronte a un’impennata di consensi a favore del partito di estrema destra, sovranista e xenofobo, e ha assunto una posizione più rigida nei confronti dei migranti. Così in Italia, dopo la sanatoria che nel 2002 regolarizzò oltre 600mila migranti, è cresciuto il consenso nei confronti del principale partito xenofobo (peraltro al governo allora come ora), il cui leader Bossi ebbe a dichiarare che bisognava sparare sui barconi dei migranti che disperatamente cercavano di attraversare il Mediterraneo. Ma non è solo la destra. Anche la sinistra (o centrosinistra) al potere, seppure adottando comportamenti meno disumani, ha dovuto (o ritenuto di) moderare l’affermazione dei principi con un “prudente” realismo: per esempio accantonando per anni (e tuttora) il riconoscimento della cittadinanza italiana ai figli dei migranti nati in Italia.
L’elenco di questi continui compromessi tra valori (e obblighi internazionali) e opportunità politica sarebbe lungo e riguarderebbe tutti i Paesi democratici ricchi e benestanti (degli altri non parliamo). Ma due esempi vanno ancora fatti, perché particolarmente stridenti: Stati Uniti e Unione europea.
Gli Stati Uniti – abbiamo detto – hanno una lunga storia di discriminazione nei confronti dei propri immigrati europei e asiatici. Oggi, e da almeno vent’anni, è aumentata la pressione migratoria al confine con il Messico: si tratta spesso di migranti economici che ricercano migliori condizioni di vita, ma vi sono anche persone che fuggono dalla violenza politica e criminale. Fin dall’amministrazione Bush (2001-2009), si annuncia la necessità di una riforma generale dell’immigrazione, che tuttavia non è mai stata realizzata per l’opposizione di uno o dell’altro dei due principali partiti. Con la presidenza Trump, c’era stato un ulteriore inasprimento nei confronti dei richiedenti asilo, con aspetti particolarmente crudeli (separazione dei bambini posti in orfanatrofi, mentre i genitori venivano deportati).
Anche Joe Biden, appena eletto, aveva annunciato una riforma generale del sistema e comportamenti più umani al confine. Dopo nove mesi la riforma non è neppure avviata e i comportamenti, con qualche modesto correttivo, sono rimasti quelli di prima. La ragione? Quella già detta: Biden ha altro da fare, deve realizzare il proprio programma economico, senza il quale la sconfitta alle prossime elezioni di midterm è assicurata. Quindi non è “opportuno” aprire ora un altro fronte nello scontro politico con i repubblicani. In futuro si vedrà. I migranti intanto aspettino.
Anche in Europa, da un ventennio, si proclama l’esigenza di una politica comune europea nei confronti dell’immigrazione. Ma, nonostante un numero infinito di vertici, la creazione di Frontex (per assistere i profughi in pericolo di vita, ma in realtà per arginarne l’afflusso) e qualche accordo bilaterale parziale, la situazione è rimasta immutata. Dublino, cioè l’accordo che prevede che i migranti restino nel Paese di primo arrivo (penalizzando sul fronte meridionale Italia, Malta, Grecia e Spagna), rimane in piedi, anche se di continuo si afferma che deve essere “superato”. La ragione è sempre la stessa: un gran numero di Stati dell’Unione non vuole saperne di accogliere i migranti perché o sono governati dalla destra più o meno xenofoba, o temono contraccolpi nell’opinione pubblica. Molto meglio che se ne occupino altri (leggi: la Turchia), pagandoli, senza stare a guardare come li trattano.
E arriviamo all’oggi. L’ultima crisi al confine orientale dell’Europa rappresenta un ulteriore passo nella politica europea sull’immigrazione, un passo indietro vergognoso. Nel merito, non c’è alcun dubbio che il presidente bielorusso Lukashenko abbia permesso l’arrivo di migliaia di profughi mediorientali nel suo paese con la promessa implicita di farli passare in Europa, e che l’abbia fatto come ritorsione nei confronti dell’Unione per le sanzioni economiche che gli erano state imposte per i suoi comportamenti autocratici.
Di fronte a questo afflusso di migranti al suo confine, la Polonia, governata da una coalizione di destra xenofoba, ha reagito con toni e comportamenti sopra le righe. Ha parlato di invasione, di atto di guerra da parte della Bielorussia, ha chiesto l’intervento della Nato e ha schierato al confine l’esercito invitando anche qualche centinaio di soldati dei Paesi baltici per contrastare l’“invasione” di qualche migliaio di disperati accampati in condizioni proibitive al suo confine (e si ricordi che la Polonia ha un bassissimo numero di immigrati accogliendo un numero risibile di richiedenti asilo). Nei confronti di questi poveracci, ha sparato con i cannoni ad acqua nel gelo delle notti, provocando la morte per assideramento di decine di loro, soprattutto bambini, li ha rincorsi e presi a manganellate, nel mentre che a Varsavia manifestanti di estrema destra chiedevano che l’esercito sparasse contro di loro.
Ma il punto non è la evidente disumanità di queste azioni e affermazioni. Il punto è il comportamento dell’Europa, che avrebbe dovuto richiamare con forza la Polonia all’obbligo –non solo morale ma giuridico, in base alla convenzione sui rifugiati e alla Carta europea sui diritti umani – di assistere e accogliere almeno temporaneamente i profughi, consentendo loro di presentare richiesta di asilo. E invece è stato spedito a Varsavia il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, per esprimere “solidarietà” e piena adesione alla linea oltranzista del governo polacco.
È possibile che Michel abbia anche esortato Varsavia a comportamenti più umani nei confronti dei profughi, ma certamente – ammesso che l’abbia fatto – non è stato ascoltato. Per essere chiari: se l’Unione europea vuole essere qualcosa di più di un soggetto economico – e se vuole che i valori di cui tanto si vanta abbiano cogenza, almeno al suo interno – deve (avrebbe dovuto) esercitare tutta la pressione di cui dispone per avvicinare almeno in parte valori e comportamenti di un suo membro. L’Unione ha un contenzioso aperto con la Polonia sul rispetto dello Stato di diritto, che vuol dire anche rispetto degli obblighi comunitari e internazionali; ma in questa occasione ha mostrato di tenere più agli equilibri e compromessi al suo interno che non al rispetto e all’avanzamento dell’ideale di Europa.