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La guerra si sta incistando nel cuore dell’Europa. C’è uno stallo: i russi non sono riusciti a piegare la resistenza ucraina e ad andare avanti; gli ucraini hanno dimostrato di essere in grado di rispondere con controffensive locali, ma non possono ricacciare indietro gli invasori. Se le cose stanno così, la guerra durerà. L’appoggio occidentale all’Ucraina ne costituisce il “polmone esterno” in fatto di rifornimenti, armamenti, intelligence. Le speranze di una tregua – per tacere di quelle di una “pace armata” – si allontanano. Ciò non significa che, nei prossimi mesi, scoppi un conflitto mondiale, o che la Russia decida di usare l’arma nucleare tattica; più probabile è che si continui in una sorta di guerra di posizione, con qualche prolungato assedio, come a Mariupol’. Un po’ come se l’intero territorio ucraino diventasse ciò che per otto anni è stato il Donbass: una guerra (semi) dimenticata.
In questa situazione, aumentano le probabilità di crimini di guerra. La guerra è un crimine in sé: ma le rappresaglie contro i civili, i massacri, com’è avvenuto probabilmente nei dintorni di Kiev, rinvierebbero al giudizio di quella famosa giustizia penale internazionale che ha trovato, purtroppo, una realizzazione solo molto parziale con la Corte dell’Aia. I principali Paesi i cui dirigenti e militari potrebbero essere processati, cioè gli Stati Uniti e la Russia, non vi aderiscono. Quando il leader serbo Milošević fu portato a processo – dopo che la Nato, e nel suo quadro l’Italia, avevano bombardato Belgrado, senza neanche uno straccio di mandato da parte dell’Onu – era ormai un uomo sconfitto e isolato all’interno del suo stesso Paese. Molti anni dopo, nel 2020, anche il dirigente albanese-cosovaro Hashim Thaçi finirà davanti al tribunale dell’Aia: a dimostrazione che, nelle guerre, i crimini sono perpetrati in genere da ambedue le parti. Non sarà questa, però, la sorte di Putin e dei suoi, che non soltanto hanno un avvocato che si chiama arma nucleare, ma che – se anche dovessero cadere – molto difficilmente verrebbero consegnati dai successori a un tribunale internazionale che, nel loro caso, dovrebbe essere una specie di Norimberga ad hoc.
Interpol, quando si dice l’uomo giusto al posto giusto
Quando molte cose ci erano più chiare, si diceva che i nomi sono conseguenza delle cose. Diventa così curioso notare come petromonarchi del Golfo e iraniani, in guerra perpetua tra loro, si ritrovino ognuno per proprio conto dietro lo stesso nome: Raisi. Raisi è infatti il nome del nuovo presidente dell’Iran, con eccellenti record nella repressione e nella violazione dei diritti umani, e al-Raisi è quello candidato e portato dai petromonarchi alla presidenza dell’Interpol. Anche lui è accusato di torture. La novità che interviene al suo riguardo è che, per essere eletto, ha dovuto ottenere copiosi consensi, visto che il presidente dell’Interpol (la cui sede centrale è a Lione, in Francia) viene eletto dai delegati dei diversi Paesi aderenti con una maggioranza qualificata, nel suo caso con il 68,9%. Ahmed Naser al-Raisi ha sì avuto bisogno di tre votazioni per farcela, ma alla fine è passato: ispettore generale del ministero degli Interni degli Emirati arabi uniti, assumerà ufficialmente la presidenza dell’Interpol nel 2022.
A suo carico non ci sono solo le parole di due cittadini europei, detenuti in passato negli Emirati arabi uniti, che lo accusano di averli fatti torturare. Ha scritto Luigi Mastrodonato su “Wired”: “La vicenda forse più nota a livello internazionale è quella di Ahmed Mansoor, attivista per i diritti umani arrestato prima nel 2011 e poi di nuovo nel 2017 per “offesa allo status e al prestigio degli Emirati arabi uniti e dei suoi simboli, compresi i suoi leader”. L’uomo, che tramite un blog e i social network denunciava le violazioni dei diritti umani nel Paese, aveva firmato diversi appelli per riforme politiche e negli ultimi anni ha ricevuto molti premi internazionali per il suo attivismo che non ha potuto ritirare prima a causa del ritiro del passaporto, e poi perché sta scontando una condanna di dieci anni di carcere. Gli attori internazionali governativi e non governativi non hanno mai perso di vista questa storia: lo scorso settembre il parlamento dell’Unione europea ha approvato l’ennesima risoluzione di condanna degli Emirati. E Il Gulf Centre for Human Rights ha presentato una denuncia in Francia proprio contro il nuovo presidente dell’Interpol, accusandolo di “atti di tortura e barbarie” nel caso Mansoor.