
Non v’è dubbio: da molti anni la politica, soprattutto la politica di sinistra (che è quella che ci interessa in questo contesto), ha smarrito le proprie coordinate di riferimento in senso ideologico, e l’ha fatto accentuando il proprio carattere, diciamo così, moralistico. Il wokismo di provenienza statunitense, per esempio (è il caso di ricordare che il termine viene dall’inglese woke, che significa “stare svegli”, “stare all’erta”), collegabile anche alla cancel culture (che sarebbe la tendenza a censurare nella storia occidentale tutto ciò che sia stato esaltazione dell’oppressione), è un modo di fare politica che non si pone la questione del potere, o più semplicemente del governo, ma intende denunciare le diseguaglianze e i razzismi sulla base dell’“oltraggio morale” che essi provocano in chi si trova a doverli sopportare. Se un nero è trucidato durante un’operazione di polizia, ciò conduce a delle manifestazioni di protesta o a delle sommosse (come di recente è accaduto anche in Francia), che non mirano però a confrontarsi con quella che sarebbe l’“autonomia del politico” (a cui il nostro amico Massimo Ilardi appare ancora legato: vedi qui).
In maniera se vogliamo depotenziata, dal wokismo, che esprime comunque un sentimento di rivolta, si passa poi al “buonismo” della difesa dei diritti umani, di cui nessuno intende negare l’importanza, ma che hanno il difetto, a loro volta, di porre questioni di carattere politico in forma etica o, tutt’al più, giuridica. Si tratterebbe in realtà di una dichiarazione di debolezza nei confronti di imponenti poteri costituiti, come quelli degli Stati, che non rispettano i diritti delle persone, ma che, pur bellamente infischiandosene, seguitano a restare in piedi ben solidi. Un caso di scuola è dato dall’Iran. Com’è possibile – ci si domanda – che un movimento così esteso e così durevole, che ritorna a ondate successive da più di un decennio, non sia riuscito minimamente a scalfire il dominio del regime teocratico? La risposta è in fondo semplice: perché (come già nelle “primavere arabe” di una dozzina di anni fa) è sempre mancata una piattaforma politica di opposizione, e ci si è affidati soltanto al coraggio dei partecipanti alle proteste, non a un’organizzazione di ampio respiro.
Insomma, è senz’altro un difetto della politica ciò che si riscontra. Ma la questione è la seguente: essa può ancora essere quella che abbiamo sperimentato nel Novecento, spesso tragicamente, o non si va verso un’altra sua forma che, magari pur senza appiattirsi sull’impostazione wokista (chiamiamola così), non può più marcare una netta cesura con la morale? È oggi immaginabile una sfera della politica differenziata dalle altre sfere della vita sociale – in particolare se si pensa all’invasione che essa ha dovuto sopportare da parte dell’economia nel corso degli ultimi decenni, cioè da quando ha rinunciato a essere piuttosto lei a cercare di governare i processi economici? E da quando, d’altro canto, a livello planetario essa ha subito un massiccio ritorno delle religioni – soprattutto, ma non solo, all’interno del mondo islamico?
A queste domande – che vorrebbero problematizzare l’idea contemporanea della politica considerandola sì una cosa relativamente a sé, ma anche qualcosa che non può più essere “al posto di comando” come in passato – quello che si citava sopra come “oltraggio morale” (prendendo spunto da Barrington Moore, che ne introdusse il concetto) offre un inizio di risposta che potrebbe risultare essenziale nel proporre un passaggio dalla morale alla politica. Se infatti una politica di sinistra dovrà indicare quale sia il suo punto d’innesco, questo non potrà che essere un sentimento di indignazione nei confronti dell’oppressione e delle diseguaglianze. Al tempo stesso, però, il sentirsi moralmente oltraggiati non è sufficiente alla elaborazione di una politica, che necessita della costruzione di un fronte di alleanze, o magari di un’organizzazione capace di essere elettoralmente competitiva dove le elezioni si fanno e non sono manovrate, completamente o in parte.
Una totale rottura con il Novecento sarebbe tuttavia impensabile: perché il passato, sia pure in forme imprevedibili, ritorna sempre. E va considerato, del resto, che negli anni Sessanta del secolo scorso cominciò a vedersi – a partire dagli Stati Uniti, nell’opposizione alla guerra nel Vietnam – una carica morale che passava, sia pure a volte in modi approssimativi, in politica. Ciò non riuscì a rendere generale la “non collaborazione” con le potenze dell’epoca; anzi, si trattò di una scelta da parte di minoranze, che però contribuì a un cambiamento nei costumi, e di cui il wokismo contemporaneo è in un certo senso l’erede. Se il destino della politica è quello di mescolarsi sempre con qualcosa che non è esattamente il “politico” – nel senso di una fredda e realistica valutazione delle forze in campo –, e se questo qualcosa ha a che fare per lo più con i condizionamenti che esso subisce da parte degli interessi costituiti, nulla impedisce di annoverare anche un “interesse morale” tra quelli a cui una politica può appoggiarsi. A patto, naturalmente, di non ridursi a questo.