È della religion il fin l’ipocrisia? Rispondere di sì o di no sarebbe sciocco. Però la domanda è importante. E la visita del presidente Macron in Italia lo ha confermato: insieme con il presidente Mattarella, all’incontro di Sant’Egidio su “Il grido della pace”, Macron ha rappresentato una laicità matura nella tutela dello spazio prioritario della libertà, e quindi della riconciliazione nella libertà, così come il suo omologo italiano. Ha detto Macron: “La pace è solo quella che gli ucraini decideranno, quando lo decideranno. […] Oggi la pace non può essere la consacrazione della legge del più forte né il cessate il fuoco che definirebbe uno stato di fatto. Ora è il momento di parlare con il popolo russo perché non è la sua guerra”. Non è forse questo il punto mancante nel programma della manifestazione del prossimo 5 novembre, la solidarietà con il movimento russo contro la guerra?
Macron ha manifestato una profonda sintonia con quanto papa Francesco sostiene da tempo, dicendolo a modo suo e con parole sue: “La pace è impura, profondamente, ontologicamente, perché accetta una serie di instabilità, di scomodità, che rendono però possibile questa coesistenza tra me e l’altro. […] La nostra Unione europea è questo tesoro, è questo piccolo tesoro di pace perché abbiamo deciso di costruire un equilibrio basato sulla conoscenza e la comprensione dell’altro, sull’assenza di egemonia”. Mattarella, sulla stessa lunghezza d’onda, ha detto: “La sciagurata guerra mossa dalla Russia rappresenta una sfida diretta ai valori della pace, mette ogni giorno in grave pericolo il popolo ucraino, colpisce anche il popolo russo, genera drammatiche conseguenze nel mondo intero. […] Bisogna mirare a una pace che non ignori il diritto a difendersi e non distolga lo sguardo dal dovere di prestare soccorso a un popolo aggredito”.
Il diritto di difendersi… Quando si recò per la prima volta nella storia del suo patriarcato a Damasco, il capo della Chiesa maronita disse che la vita umana è un bene talmente prezioso che perderne anche una sola per chiedere libertà sarebbe un errore. Questa visione è profondamente diversa da quella che papa Francesco ha espresso solo pochi giorni fa, in Kazakistan, parlando con i gesuiti della provincia russa: “I governi dittatoriali sono crudeli. C’è sempre crudeltà nella dittatura. In Argentina prendevano la gente, la mettevano su un aereo e poi la buttavano nel mare. Quanti politici ho conosciuto che sono stati in prigione e torturati! In queste situazioni si perdono i diritti, ma anche la sensibilità umana. Io l’ho sentito in quel momento. Tante volte ho pure sentito bravi cattolici dire: ‘Se la meritano questi comunisti! Se la sono cercata!’. È terribile quando l’idea politica supera i valori religiosi. In Argentina sono state le mamme a fare un movimento per lottare contro la dittatura e cercare i loro figli. Sono le mamme a essere state coraggiose in Argentina”.
Quello che emerge con chiarezza è che le differenze sono evidenti all’interno degli stessi mondi: esiste una visione della Chiesa diffusa in Oriente che la associa e l’avvicina al potere politico statuale, come quello russo o, nel caso qui citato, quello siriano, e quella di Francesco che non accetta alcun allineamento occidentale della sua Chiesa, che è una Chiesa globale, non più solo occidentale. Francesco non è e non sarà mai il Kirill dell’Occidente. Ma non sarà neanche un leader acquiescente con chi calpesta i diritti umani, e quindi anche quelli ucraini.
Si pone qui una differenza anche con chi parla di pace in Occidente, ansioso di distinguersi dal suo Occidente, che vorrebbe corrispondesse all’impero del bene. Francesco sa che nessun impero del bene esisterà su questa terra, né in Occidente né in Oriente. Ecco che viene spontaneo domandarsi, pensando alla sua idea di pace, chiedersi se i firmatari di un recente appello per la pace – apparso su diversi giornali, e che proprio nel papa hanno detto di trovare ispirazione – ritengano che come la Crimea dovrebbe tornare alla Russia perché ceduta all’Ucraina da Chruščëv, senza rispetto della storia, se altrettanto si sarebbero trovati a raccomandare di fare a un qualsiasi presidente italiano, in occasione di un incontro con il suo omologo francese, circa la restituzione di Nizza e della Savoia. Il discorso potrebbe estendersi a molti territori di altri Paesi, come l’Alsazia, e così via. Ma questo sistema – il nazionalismo, cioè – non compare proprio nel pensiero del papa.
La visione ipocrita è molto vicina a quella nazionalista e religiosa, che assimila al cristianesimo russo un’idea imperiale, ciò che Francesco nega come visione possibile del rapporto tra fede e pace. La pace di Francesco si differenzia dunque da queste visioni perché è pluralista, non si affida a un tutore, a un depositario della verità. Non calpesta i diritti dei comunisti argentini come non calpesta i diritti dei nazionalisti ucraini. È questa la forza di una visione che non si lascia omologare, che ha il coraggio di dire che dialogare con Mosca puzza ma va fatto. Va fatto senza appiattirsi su un occidentalismo bellicista né su una slavofilia antioccidentale, romantica, innamorata dell’idea di una cultura ancestrale e nemica della civiltà. Questa visione di pace è molto diversa da quella di chi vede in Mosca o in Washington la casa di ogni male o di ogni bene. La fine del manicheismo, di destra o di sinistra, è il salto di qualità che Francesco, in un modo compatibile con Macron e Mattarella, propone anche al pacifismo, che non può prescindere dall’anelito di libertà – come dimostrano proprio in queste ore l’Iran e l’eroica lotta del suo popolo. Lo ha detto, facendo autocritica, anche Barack Obama, che nel 2009 scelse diversamente. O si dovrebbe, in nome di una pace fraintesa, accordarsi con gli ayatollah tacendo sulla sollevazione popolare?