Nella pandemia le periferie si allontanano… se ne parla distrattamente, per inciso, non fanno notizia, tra una quarantena e l’altra in pochi ci si avventurano, rimangono lì, da qualche parte, isolate con i loro problemi irrisolti e amplificati dal Covid.
Gli urbanisti, consapevoli della gravità della situazione, parlano della necessità di città a 15 minuti, e segnalano l’urgenza di un ripensamento completo del sistema dei trasporti. Ma il problema della periferia non è solo la distanza dal centro. Recenti ricerche e report su Roma, Genova, Milano e Napoli segnalano un impoverimento drammatico in quelle che erano già situazioni difficilissime.
È come se il virus avesse fatto massa, portando alla luce tutti i problemi preesistenti. Ai margini della città c’è un sommarsi di disparità non solo di reddito, ma anche di formazione culturale, di opportunità di lavoro, di prossimità ai servizi e di qualità dei servizi stessi, in ultima analisi una disuguaglianza radicale di chances di vita. Già lo aveva segnalato qualche anno fa con preoccupazione la Commissione Parlamentare di inchiesta sulle periferie, sia pure da una prospettiva prevalentemente securitaria. Tra un quartiere e l’altro passano fratture enormi, che sembrano ormai sempre più acuirsi. La distanza, questa sì sociale, si scava tra territori che in realtà sono spazialmente contigui, ed è alimentata da dinamiche accelerate che drammatizzano la polarizzazione tra alto e basso.
Una inchiesta recente sulle periferie romane parla di un 40% di famiglie in condizioni di povertà assoluta, con oltre un 20% a reddito zero in zone in cui la situazione era già gravissima come Tor Bella Monaca. Ma notizie analoghe giungono anche da altre città. Persino Milano, offuscatosi forse per sempre il propagandistico “modello Milano”, sperimenta nei quartieri periferici difficoltà inedite, si scopre, con sorpresa e quasi con raccapriccio, povera. Gioca un ruolo centrale la repentina perdita delle entrate minime che consentivano a molti nuclei familiari di condurre uno stile di vita dignitoso, anche se caratterizzato da importanti ristrettezze economiche.
A Genova aumentano parallelamente sia l’indebitamento delle famiglie che i depositi bancari. Una parte delle famiglie si indebita, un’altra si arricchisce e accumula. A Napoli la limitazione degli spostamenti paralizza e infligge un colpo durissimo alle economie dei lavoretti e del campare alla giornata, gettando sul lastrico migliaia di persone. Altro dato impressionante che complessifica il quadro è quello della crisi dell’abitazione: un moltiplicarsi di situazioni di difficoltà che vanno ad amplificare una questione della casa preesistente e di proporzioni rilevantissime.
Una ricerca del Sicet di Milano rivela come moltissimi nuclei familiari non riescano più a pagare l’affitto e si vengano a trovare sulla strada anche famiglie che credevano di avere ormai conquistato una condizione abitativa consolidata. Il fantasma degli sfratti finora ancora rinviati con il decreto Milleproroghe fino a giugno, in ogni caso incombe per centinaia di migliaia di famiglie.
La pandemia ha spazzato via in maniera repentina tutte quelle fonti di reddito informale su cui si basavano le economie domestiche di molti residenti nelle periferie. Pare sempre più oscuro capire di che cosa vivano i quartieri in difficoltà. Si moltiplicano situazioni in cui anche la soddisfazione di esigenze elementari diviene un miraggio, e in cui si alimentano risentimento e malessere. Luoghi in cui la presenza del potere e delle istituzioni diviene qualcosa di sempre più vago e il legame sociale, visto il doppio deficit di legittimità e di capacità di autodeterminazione, si affida ormai a componenti identitarie, spesso declinate in maniera revanscista. E se le condizioni dei “poveri cronici” peggiorano ulteriormente, si schiude un universo di “nuovi poveri”. Si tratta di figure che entrano improvvisamente e in maniera inattesa in una fascia di povertà da cui avevano a lungo lottato per restare fuori, più prossimi sotto il profilo della struttura sociale ai “non poveri”.
I “nuovi poveri” sono principalmente urbaniti, come direbbero i geografi francesi, persone che vivono in quartieri meno remoti, teoricamente dotati di un migliore accesso alle infrastrutture, e che sono in possesso di risorse meno esigue dei poveri urbani tradizionali. Sono per lo più titolari anche di posti di lavoro leggermente migliori rispetto ai poveri cronici, e tuttavia vengono trascinati verso il basso dal vortice della crisi economica innescata dalla pandemia. Entrano a fare parte della nebulosa ambiguamente chiamata “periferia sociale”, dei cosiddetti “vulnerabili”, e con loro muta anche la fisionomia delle zone in cui abitano.
Così ai tempi del Covid la periferia cresce, si estende, divora parti di città un tempo considerate centrali. In mancanza di politiche complessive, mirate ed energiche, e finché la questione delle periferie e della loro crisi, che pare sempre più di portata epocale, sarà demandata a esili rammendi e a puntiformi e occasionali interventi di sostegno al reddito, possiamo solo aspettarci città sempre più divise, in cui dilaga sì un virus preoccupante – ma è quello della disuguaglianza.