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Forza militare? Ciò che l’Europa potrebbe essere ma non è
Von der Leyen, presidente della Commissione europea, sembra convinta che l’Unione debba dotarsi di una sua propria forza militare. Si parla di un piccolo esercito di cinque o seimila addetti, che – a differenza di quanto avviene con l’attuale battaglione dei millecinquecento, composto solo di forze di terra – dovrebbe potere intervenire nei cieli e nei mari, senza trascurare il cyberspazio, ovviamente, sempre più decisivo in qualsiasi scenario di guerra.
Ma è questa una buona proposta? Apparentemente sì, perché qualsiasi passo avanti nel senso di un’integrazione sovranazionale, dentro un processo politico iniziato nel lontano 1957 con i trattati di Roma, è da accogliere come una notizia positiva. Tuttavia, nel merito, le perplessità sono parecchie. Non è chiaro, per dirne una, quali sarebbero i rapporti di questa nuova forza militare con la Nato: se fossero “di sintonia”, come si è letto o sentito dire, l’Europa sarebbe di fatto ancora una volta al rimorchio della ben più consistente “protezione armata” offerta dagli Stati Uniti. Logica vorrebbe, se si procedesse verso una difesa integrata tra i paesi europei, che questa fosse del tutto separata dalla Nato, la cui funzione – è opportuno ricordarlo – si sarebbe esaurita già negli anni Novanta del Novecento, con la fine del mondo sovietico nei cui confronti la Nato avrebbe dovuto funzionare da ombrello protettivo.
Tunisia nel ciclone
Cosa potrebbe insegnare all’Europa la sconfitta americana in Afghanistan
La rovinosa fuga dall’Afghanistan è un avvenimento certamente destinato ad avere un peso rilevante in molti modi e su diversi fronti. Le analogie storiche si sprecano e l’enfasi non manca. Forse è prematuro, per non dire avventato, formulare un paragone così netto fra un’epoca storica e un’altra, come ha scritto Bernard Guetta, secondo cui come il Ventesimo secolo iniziò a Sarajevo, alla fine del giugno del 1914, così il Ventunesimo sarebbe nato a Kabul nel luglio di quest’anno. Ma certamente la fuga degli Usa e alleati dall’Afghanistan è destinata a cambiare gran parte degli assetti politico-economici mondiali.
In sostanza gli Stati Uniti sono ora fuori sia dall’Oceano indiano sia dall’Asia. Lo confermano, per contrasto, le aspre parole con cui la repubblicana Kelly Craft ha inaugurato l’Asia-Pacific Security Dialogue organizzato dal ministero degli Esteri di Taipei. La rappresentante statunitense ha ribadito la continuità tra Trump e Biden nella difesa di Taiwan dalle ambizioni cinesi, invitando però i taiwanesi a fare come Israele, cioè ad armarsi di tutto punto e a non affidare la loro salvezza solo all’aiuto altrui.
Ecologia, un ritorno alla scelta tra progetti di società differenti
Tassonomia verde, decarbonizzazione a rischio in Europa
L’Unione europea alla guerra dei vaccini
La soluzione del problema libico: uccidiamoli con la bomba N
“L’Europa bloccherà le partenze da Libia e Tunisia”. È questo il titolo dell’intervista rilasciata quest’oggi dalla commissaria europea agli Interni, Ylva Johansson, sulla questione dei migranti. Il testo comincia così: “Stiamo già parlando con le autorità libiche e con il governo ad interim di Abdul Hamid Dbeibeh: ci sono riscontri e opportunità positive, sono pronta a impegnarmi per esplorare la possibilità di chiudere un nuovo accordo con la Libia senza aspettare le elezioni di dicembre”. Il quotidiano romano che l’ha intervistata, la Repubblica, aggiunge subito dopo: “È la prima volta che un responsabile europeo parla dei negoziati con il nuovo governo di Tripoli per mettere fine alle partenze incontrollate, e spesso mortali, dei migranti verso Lampedusa”. Specifica l’intervistata al riguardo della Libia: “Abbiamo riscontri molto positivi con il governo ad interim, ci sono opportunità di lavorare bene con Tripoli. Sono pronta a impegnarmi con la Libia per esplorare le possibilità di un nuovo accordo. Detto questo, ogni Paese ha le sue specificità, non si può fare un copia incolla di altre intese come quella con la Turchia. La Libia ha anche bisogno di strumenti e capacità nella gestione dei migranti e inoltre è inaccettabile lasciare le persone nei campi in cui oggi sono rinchiuse”.
Ora, bisogna essere onesti con se stessi prima che con gli altri. È noto da tempo (dal 2003) che l’operazione di “esportazione della democrazia” è fallita non per colpa dell’acquirente ma del venditore. La democrazia non è una soltanto, non è neanche una merce, e mettere un amico compiacente al posto del vecchio despota non è democrazia. Ma l’interesse per la Libia permane vivo per tutta l’Europa, e per l’Italia e la Francia in primo luogo. Questo interesse si chiama “idrocarburi”. La Libia ne è ricca, come tutti sappiamo. Ma nel frattempo la Libia è caduta nelle mani di bande di mercenari e trafficanti dopo un intervento che ci ha coinvolto, ma senza la disponibilità a investire una lira nel democracy building. Meglio far finta di credere che era “bello” vendere l’idea “la Libia ai libici”, come se uno Stato si possa edificare sulla carta del technical support che l’Onu offrì a chi in pochi mesi mise in piedi, in un Paese senza strutture, le “libere elezioni”.