Il discorso che Mario Draghi ha pronunciato di fronte al parlamento europeo, lo scorso 3 maggio, è denso di spunti, pur se connotato, come d’abitudine, dalla burocratica asciuttezza che caratterizza il presidente del Consiglio. Nell’allocuzione – che mescola elementi eterogenei in maniera poco lineare e a tratti confusa – predomina un sentimento di urgenza: emerge una non nascosta ansia per la piega che gli eventi stanno assumendo. Draghi individua una sommatoria di elementi di crisi che minacciano l’Unione: dalla guerra in Ucraina all’innalzamento dei prezzi dell’energia, dalla crisi dei rifugiati all’inflazione, alternando temi di geopolitica e di economia.
L’idea guida del discorso è che lo stato in cui versano le istituzioni europee sia sostanzialmente “inadeguato” a fare fronte a una tempesta dai molteplici aspetti, e che si debba quindi “accelerare il processo di integrazione”. Questo sia rivedendo, in parte, i contenuti dei trattati, sia ripensandoli sotto il profilo formale. Occorrerebbe, infatti, procedere oltre il principio di unanimità e andare verso decisioni prese a maggioranza qualificata, in modo che il parlamento europeo sia in grado di deliberare in tempi ragionevoli.
Sollecitando per il conflitto ucraino una soluzione diplomatica, Draghi ha presentato nel contempo proposte per migliorare la cooperazione tra i sistemi di difesa nazionale, rafforzare la gestione europea dei flussi migratori, rivedere al ribasso i prezzi dei carburanti e sostenere i salari. Altro elemento della vagheggiata accelerazione dei processi di unificazione dovrebbe essere l’allargamento dell’Unione ad altri Paesi – tra cui Albania, Macedonia del Nord, Bosnia e Montenegro – per giungere fino ad accogliere la stessa Ucraina. Sotto il profilo politico più generale, tutti questi interventi andrebbero pensati nell’ottica di un “federalismo pragmatico” che vada ad affiancare il “federalismo ideale”.
A ben vedere, queste considerazioni ripropongono, attualizzandola, una questione del destino dell’Europa che, da almeno due decenni, giace congelata in una sorta di animazione sospesa, senza trovare avanzamenti o risposte. Il processo costituente europeo è rimasto troppo a lungo unicamente “in atto”, trascurando proprio la prospettiva politica, sociale e costituzionale che avrebbe potuto dargli solide basi e gambe per procedere.
Dalle parole del presidente del Consiglio emerge dunque, quasi a malincuore, la necessità del ritorno della politica sulla scena europea, dopo che si è a lungo pensato (e lo stesso Draghi era tra coloro che lo ritenevano) che l’Europa l’avrebbero fatta la finanza e il mercato. Ed è triste in fondo rilevare che ci sia voluta una guerra per riproporre prepotentemente il tema, per non parlare del fatto che un’accelerazione della unificazione, nelle condizioni attuali, potrebbe costituire un rimedio peggiore del male, all’insegna di un “pragmatismo” tutto tecnico, che eluda ulteriormente le implicazioni storico-politiche della costruzione europea.
Riacquisire capacità di progettazione politica equivale, invece, a scommettere sull’Europa in termini di nuova e rapida costruzione, quale entità che sappia andare al di là di qualsiasi Europa storica precedente, al di là delle Europe del passato. Una Europa “futura”, come recita il tema della discussione che si è tenuta a Strasburgo proprio ieri, 9 maggio.
Il ricorso al termine “federalismo pragmatico” implica, però, una visione in cui più che elementi di idealità dovrebbero essere i “fatti” a ispirare i processi di unificazione, in omaggio alle “filosofie del fare” oggi di moda. Visione che può apparire angusta e discutibile, se intende sovrapporre i diversi piani della ricerca, forse tardiva, di una “politica di potenza” eurocentrica dettata dal precipitare degli eventi, con un “eurocentrismo generico”, basato su slogan che, superficialmente, propongono libertà personale e politica e riconoscimento dei diritti degli altri.
Lo spazio europeo come spazio di “diversità attiva” – per riprendere l’espressione di una studiosa delle migrazioni internazionali, Heidrun Friese – dovrebbe essere invece il luogo di un’identità comune ancora da costruire, sulla scorta delle diverse idee di identità politica che fin dal Diciottesimo secolo hanno permeato di sé l’eredità culturale del vecchio continente; ma anche un luogo al riparo dalla pretesa di riconoscimento di pratiche identitarie forti ed escludenti, in quanto esclusive. La questione dei confini dell’identità europea, infatti, appare oggi più che mai intricata, e la sfida di un nuovo universalismo è sempre più importante per affrontare, per esempio, la questione di rifugiati e migranti.
Tutto questo non si fa certo con il “pragmatismo”, senza pensiero e senza teoria politica, e senza il contributo determinante dei cittadini europei. Nel discorso di Draghi non compare, se non per accenni impliciti, la partecipazione. E ciò dopo vent’anni in cui sono state sistematicamente e volutamente disattese tutte le opportunità di creare una Unione europea a partire dai cittadini. A noi pare che il fine di una Europa intesa come spazio politico globale, dotato di una sua autonomia decisionale, sarebbe perseguibile solo rendendo la dimensione istituzionale disponibile a lasciarsi contaminare da istanze e pratiche politiche generate dal basso, inserite in un sistema aperto di comunicazione, in modo da scrivere una ben diversa storia della integrazione. Tutto il contrario quindi di una Europa frettolosamente ripensata in maniera “pragmatica” dalle élite e dagli addetti ai lavori. Un ripensamento “ontologico” della dimensione europea che richiederebbe tempo, e la cui possibilità appare sempre più remota nel momento dell’urgenza bellica. Anche perché non tutti i Paesi dell’Unione concordano su di una simile prospettiva “rifondativa”, e vi è divisione anche sulla semplice rimozione della regola della unanimità.
Svariati fattori sembrano inoltre congiurare contro la fattibilità concreta di un progetto di “accelerazione” della unificazione: su tutti la guerra che si va cronicizzando, in un crescendo di tensioni e di violenza, sotto gli occhi di una Europa divisa e incapace di dire la sua, magari in termini contro-egemonici rispetto a quelli dell’amministrazione Biden.
Nonostante Macron abbia alzato la voce, le resistenze all’unilateralismo americano da parte di Paesi come Francia e Germania appaiono sempre più deboli. Così lo speech di Draghi rischia di restare circoscritto a una mera esternazione di occasione. Vedremo forse più chiaramente che Europa egli immagina, dopo il colloquio che avrà stasera a Washington.