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Le (impossibili) dimissioni di Enrico Letta. Un appello
In questi giorni sta succedendo l’inverosimile – ma sappiamo bene quale sia l’origine dell’enorme pasticcio che ne è venuto fuori. Esso non è che la conseguenza di un’unica scelta sbagliata iniziale, quella di avere lasciato cadere, da parte del Pd, il rapporto preferenziale, faticosamente costruito negli anni, con il Movimento 5 Stelle. Ora non è più il momento delle balle (di cui sono specialisti i due comici della commedia all’italiana, Carlo Calenda e Matteo Renzi). Con il modo di presentazione alle elezioni in cui il Pd si sta cacciando – pur con il positivo apporto di Europa verde e Sinistra italiana, e, a quanto pare, di +Europa – il rischio non è quello di una semplice vittoria del cartello delle destre ma di una débâcle di proporzioni immani, in cui persino la Costituzione sarebbe a rischio (si ricordi che, con una maggioranza dei due terzi dei parlamentari, è possibile cambiarla senza passare per un referendum). È rimasta solo una settimana per ricucire con i 5 Stelle di Conte e arrivare a un patto elettorale.
Il responsabile principale di quanto accaduto è Enrico Letta. È anzitutto lui, in quanto segretario, che si è fatto abbindolare nel tira e molla con Calenda, e perciò dovrebbe farsi da parte. Non si tratterebbe di vere e proprie dimissioni – perché un partito non potrebbe affrontare le elezioni con un segretario dimissionario –, ma occorrerebbe, da parte di Letta, il riconoscimento di essersi infilato nell’impasse, lasciando ai suoi due vice, Giuseppe Provenzano e Irene Tinagli, il difficile compito di trattare con Conte e i suoi.
Il M5S è spaccato, punto interrogativo sul Pd
"Cosa resterà di questi anni Ottanta", diceva una vecchia canzone. Cosa resterà del Movimento 5 stelle è domanda d'attualità sulla quale è d'obbligo astenersi da troppe certezze e limitarsi a fare ipotesi, più che previsioni. Nell'ultimo anno e mezzo, pagando pegno (dopo la crisi del Papeete scatenata da Matteo Salvini) alla formidabile macchina di propaganda del centrodestra e alle sue debolezze strutturali, la creatura politica tenuta a battesimo in un'altra era geologica da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio è entrata a far parte di un abbozzo di coalizione politica. Coalizione che comprenderebbe il Partito democratico e le truppe sciolte di Liberi e Uguali. Ma il blitz di Matteo Renzi, che (alla vigilia di una importante tornata di nomine pubbliche ma soprattutto della stagione della gestione del Recovery Plan) ha disarcionato Giuseppe Conte anche per impedire il consolidamento di questo asse politico, ha mostrato tutta la fragilità dell'operazione politica. Sui due lati: il primo è quello del Pd, che per una parte significativa e forse maggioritaria dei suoi gruppi parlamentari e dei gruppi dirigenti diffusi preferisce altre compagnie; il secondo quello del M5S, che si è spaccato, stavolta non con la consueta uscita di poche unità di "dissidenti" e per la prima volta corre il rischio reale della nascita di un gruppo scissionistico alternativo con qualche figura nota al suo interno. Il corpaccione dei gruppi parlamentari e degli iscritti non è stato in grado di digerire la sconfitta sulla trincea scavata a difesa del Conte 2 e l'inversione a U dettata dai vertici con l'adesione al governo presieduto da Mario Draghi, uno dei bersagli storici della polemica di Grillo e soci.
Governo Draghi: “salvezza nazionale” ma non harakiri
“Salvezza nazionale”, non più “unità nazionale”. Nel lessico politico, oltre che nei contenuti, c’è stato un salto categoriale nel giro di pochi giorni. Lo hanno imposto il presidente Sergio Mattarella e Mario Draghi. Si va in effetti verso un governo accompagnato da una ennesima drammatizzazione emergenziale del caso italiano.
Questa volta le emergenze sono almeno tre, tutte gravissime: sanitaria (Covid e campagna vaccinale), economica come conseguenza della prima e quella sociale (i probabili milioni di disoccupati che si aggiungeranno agli attuali, quando finirà il blocco temporaneo dei licenziamenti). Poi ce n’è una quarta di cui sono protagonisti gli stessi Mattarella e Draghi, che pure non ne parlano: sono l’afasia e l’impotenza della politica tout court, oltre che del sistema istituzionale. I precedenti si possono trovare nel Comitato di liberazione nazionale e nel governo De Gasperi del 1945 con Togliatti ministro, nei governi del periodo 1976-1979 che si reggevano anche sul voto di astensione dei comunisti. Nel primo caso, eravamo in pieno dopoguerra e occorreva costruire la democrazia. Nel secondo, il nemico era il terrorismo che colpì addirittura Aldo Moro, mentre la bussola strategica era il “compromesso storico” tra Dc, Pci e Psi.