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Gli inciampi del governo Meloni ai suoi cento giorni
Quanto durerà il governo Meloni? “Vogliamo garantire stabilità e rimanere al governo per cinque anni”: parole e musica di Antonio Tajani, ministro degli Esteri, da molti anni la figura istituzionale di maggior rilievo dell’entourage di Silvio Berlusconi. Non solo non sarà facile politicamente tenere fede a tali promesse, per Giorgia Meloni e i suoi alleati di complemento, ma sarà impossibile tecnicamente, se si va avanti, come tutti i big della maggioranza di destra-centro dicono di voler fare, con gli ambiziosi programmi di revisione degli equilibri costituzionali. Revisione che dovrebbe passare attraverso l’intervento sull’autonomia regionale differenziata con una semplice legge ordinaria (dato che la sciagurata iniziativa ha le sue radici nella riscrittura del Titolo V della Carta che risale al 2001 e porta le impronte digitali del cosiddetto centrosinistra) e attraverso un progetto di riforma della Costituzione per introdurre il presidenzialismo, il semipresidenzialismo o il “premierato forte”. Gli alleati continuano da mesi a punzecchiarsi sulla tempistica delle due riforme, parallela o disassata a seconda che si parli con meloniani, salviniani o berlusconiani; ma una cosa è certa: se passasse una revisione della forma dello Stato e/o della forma di governo, il Quirinale come lo conosciamo ora sarebbe esautorato, il rapporto fra le Camere e gli esecutivi risulterebbe totalmente stravolto. Quindi il giorno dopo si dovrebbero convocare nuove elezioni. Cinque anni? Anche meno, decisamente meno.
Per ora l’apparato comunicativo della maggioranza, soprattutto di Fratelli d’Italia, punta tutto sui “cento giorni”, traguardo simbolico attraversato senza particolari scossoni, vantando presunti successi per l’andamento del mitico spread sui titoli pubblici e indici di Borsa col segno più, visti come segnali di gradimento dei mitici “mercati” nei confronti della coalizione governativa. Del resto, il consenso dei “mercati”, da qualche decennio a questa parte, è assai più ricercato da gran parte dei leader politici, rispetto a quello degli elettori. Non sono certo loro i primi a prenderlo come punto di riferimento decisivo per l’azione politica. Carlo Calenda, scoppiettante leader di una opposizione non troppo ostile, ricorda non a caso nel contro-bilancio dei cento giorni compilato sul “Foglio” con una serie di pareri di politici e opinionisti vari, che Meloni “ha seguito pedissequamente”, nella legge di Bilancio, “i provvedimenti che Mario Draghi aveva pianificato”. Al momento, prendendo per buoni i sondaggi più recenti, non solo gli operatori finanziari ma anche gli elettori concedono un certo grado di fiducia alla presidente del Consiglio (il suo credito personale oscilla grosso modo fra il 36 e il 46%, nelle diverse rilevazioni demoscopiche) e al partito vincitore delle elezioni, che dal 26%, raccolto nelle urne lo scorso settembre, è stimato oltre il 28: non sfonda, ma è comunque saldamente in testa alle preferenze degli italiani, fratelli o sorelle che siano.
Senato, la prima prova del “destra-centro”
Una legislatura costituente?
Se questa che sta per aprirsi sarà davvero la legislatura costituente – come noi non ci auguriamo, ma come si augura Marcello Pera, indimenticato ex presidente del Senato per via dell’atteggiamento zelante nei confronti del suo capo, e oggi uomo delle riforme di Giorgia Meloni –, sarà perché qualcuno, fuori dall’area di destra-centro, ci metterà lo zampino. Non solo perché la coalizione di governo non ha raggiunto l’ambita soglia dei due terzi dei seggi in parlamento (che le avrebbe permesso un’autonomia di manovra nell’affossamento della Costituzione), ma anche perché la maggioranza, all’apertura della nuova legislatura, si presenta litigiosa e in difficoltà, tanto che non c’è ancora un accordo sui nomi dei presidenti delle Camere. Lo troveranno, certo, e forse ci beccheremo al Senato il sanbabilino Ignazio La Russa, che menava le mani nelle piazze milanesi tra i Sessanta e i Settanta, mentre alla Camera dovrebbe arrivare il leghista Giorgetti o Molinari. Da una parte, le aspirazioni presidenzialiste-autoritarie; dall’altra, quelle del regionalismo estremo e devastatore.
In ogni caso è chiaro che “sorella Giorgia” sta affrontando non pochi problemi a tenere insieme la sua incerta armata, tra i bisogni senili di Berlusconi e le manie di grandezza del già “capitano” leghista. In più, ha avuto parecchi rifiuti dai nomi sui quali puntava per il super-ministero dell’Economia, così avendone ricavato che Mattarella non sta facendo granché per sostenerla. In realtà, Meloni non ha altri a cui affidarsi, se non appunto il presidente della Repubblica, che dovrà certificare il grado di affidabilità del suo governo, avendo anche il potere di non firmare i decreti di nomina dei ministri: perché il Quirinale non è un luogo della rappresentanza del potere ma quello in cui esso stesso si definisce, il deep-State del Paese, dove si regolano gli orologi. Per questo la leader di Fratelli d’Italia è stata cauta, fino a sparire dai radar: non vuole fare mosse false per poi doversi ritirare per un no del Colle. Non vuole ripetere il “caso Savona”.
Impressioni elettorali a caldo
Previsioni della vigilia rispettate. Il cartello delle destre vince le elezioni trainato dal partito di Giorgia Meloni che arriva intorno al 25%. Si apre una fase apparentemente scontata – quella del conferimento dell'incarico da parte di Mattarella alla leader di Fratelli d'Italia –, ma il governo di destra-centro che nascerà avrà al suo interno la grossa incognita della sorte di Salvini, che crolla all'8-9%: la Lega lo farà fuori? Berlusconi salva la pellaccia ottenendo un risultato molto vicino a quello leghista. Si conferma un'analisi che vuole Meloni come l'erede del berlusconismo, oltre che del fascismo, e che vede la sua formazione come espressione emergente, ormai, del blocco borghese del Nord, pronto a orientarsi opportunisticamente verso una destra vandeana, guidata da una romana di estrazione popolare.
Per quanto riguarda la "non destra", il Pd, come previsto, non supera il 20%: e si porrà di fatto la questione della segreteria Letta, che ha condotto una inesistente campagna elettorale, oltre ad avere sbagliato il modo di presentarsi alle elezioni. Un fallimento su tutta la linea. Che ha fatto, in gran parte, le fortune di Conte e dei suoi che rimontano, come previsto, fino al 17% circa. Al palo – ma sopra lo sbarramento – resta la lista unitaria tra i verdi e la sinistra di Fratoianni.