“Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. Sia invece il vostro parlare: ‘sì, sì’, ‘no, no’; il di più viene dal Maligno”. Chissà se Giorgia Meloni terrà a mente l’esortazione del Vangelo di Matteo quando questa settimana si tornerà a discutere nell’aula della Camera della ratifica della riforma del Mes, il Meccanismo europeo di stabilità, un tempo conosciuto come fondo salva-Stati. Anche se va precisato che non è da escludere un nuovo rinvio, gradito a palazzo Chigi nell’ottica di una discussione “a pacchetto” con Bruxelles anche sul nuovo Patto di stabilità e crescita, e sul tema domestico delle concessioni balneari, sul quale è tornata a farsi sentire la pressione della Commissione europea.
I proclami del 2019
La citata raccomandazione evangelica, tutto sommato di buon senso per qualunque esponente politico che sia affezionato alla propria credibilità, non dovrebbe sfuggire in particolare alla presidente del Consiglio “cristiana”, come spesso ha rivendicato di essere. A titolo di promemoria, è il caso quindi di richiamare cosa diceva lei stessa nel dicembre 2019, quando a trattare sul Mes era l’allora capo del governo, Giuseppe Conte. La riforma, spiegava Meloni, sarebbe stata “una fregatura mondiale” da parte dell’Europa “che ormai ci considera una colonia”, e ancora: “Una resa incondizionata agli interessi tedeschi” che servirebbe a “mobilitare 125 miliardi di euro di soldi dagli italiani per sostanzialmente salvare le banche tedesche”.
In quei giorni, il suo alleato-rivale Matteo Salvini fece sentire la sua voce nell’aula del Senato, celebrando come eroi del dissenso i docenti universitari che “hanno messo in discussione il trattato del Mes”. Nonostante le linee guida sostanziali della riforma fossero state concordate in sede europea nel 2018, all’epoca del governo giallo-verde, per il segretario della Lega (oggi come nel 2018 ministro e vicepresidente del Consiglio), nel 2019 invece “avere avuto il coraggio di esporsi in un momento in cui vale conformarsi” meritava “la citazione nell’aula del Senato e non vorrei venissero marchiati di infamia con una stella gialla perché hanno avuto il coraggio di dire no”. Insomma, il Mes come le leggi razziali nazifasciste, con quel filo di passione per l’iperbole che caratterizza da sempre la sua immagine pubblica e la sua leadership.
Non meno bizzarre le dichiarazioni rilasciate all’epoca da Roberto Gualtieri. Pochi lo ricordano, ma, prima della non felicissima esperienza come sindaco di Roma, Gualtieri fu ministro dell’Economia, forte dei suoi più che buoni rapporti con i vertici europei e la burocrazia brussellese. “Il Mes – spiegò solennemente in parlamento – è il più sovranista” degli strumenti europei, “perché è gestito dai ministri dei vari Paesi e perché gestisce soldi degli Stati, non del bilancio europeo”. Visti i poteri rilevanti che il trattato conferisce al Meccanismo europeo di stabilità in caso di assistenza a Stati membri dell’Unione in difficoltà, e le inquietanti norme a garanzia dell’immunità giuridica per i suoi vertici, questa insolita dichiarazione anti-europeista, pensata evidentemente per conquistare i cuori degli euroscettici nei vari partiti, andrebbe messa sulla bilancia dei pro e dei contro del nuovo trattato.
Il nodo del nuovo Patto di stabilità
Un altro aspetto bizzarro della vicenda è che le due proposte di legge di ratifica della riforma del trattato sul Mes non sono dell’esecutivo, e nemmeno dei gruppi parlamentari di destra-centro, ma portano le prime firme di esponenti del Pd e di Italia viva: Piero De Luca e Luigi Marattin. Finora la tattica usata dalla maggioranza che sorregge il governo Meloni è stata quella di buttare la palla in tribuna: di rinvio in rinvio, però, siamo alle battute finali. Entro fine anno, l’Italia dovrà decidere che fare, perché per Bruxelles il nuovo trattato deve entrare in vigore il primo gennaio 2024, perché il nuovo Mes svolge un ruolo di supporto di ultima istanza (il cosiddetto backstop) al Fondo unico di risoluzione per il salvataggio delle banche e ha, quindi, nelle intenzioni dei suoi promotori, anche il compito di scoraggiare manovre speculative a danno degli istituti finanziari europei.
Proprio a gennaio dovrebbe entrare in vigore il nuovo Patto di stabilità e crescita, che ancora non ha visto la luce, e che a giudizio di palazzo Chigi dovrebbe essere valutato insieme al Mes. Posizione condivisa (“per lealtà”, scrive un autorevole commentatore) da Forza Italia, che pure è notoriamente la forza più propensa a dare l’ok alla riforma. “Per quanto riguarda il Mes – ha spiegato recentemente Antonio Tajani, ministro degli Esteri e segretario pro tempore degli orfani di Silvio Berlusconi – non credo che il tema possa essere affrontato in maniera isolata. C’è un tema che riguarda il patto di crescita e stabilità, e credo si debba vedere nell’insieme la questione finanziaria”.
Ma su questo punto, il rovescio della medaglia è che gli ambienti europei più ortodossi usano come una minaccia la scadenza del 31 dicembre, quando terminerà il periodo di sospensione del vecchio Patto deciso in seguito alla pandemia. Specie ora che i “rigoristi” (soprattutto nei cosiddetti Paesi “frugali” del Nord Europa) hanno rialzato la testa, e anche grazie alla politica di continuo rialzo dei tassi da parte della Bce vedono la possibilità di rimettere in riga le nazioni mediterranee più gravate dal fardello del debito pubblico. Un esempio di questa attitudine è rappresentato dagli avvertimenti lanciati dal commissario europeo Paolo Gentiloni, che, pur essendo per ruolo istituzionale un mediatore fra i vari governi coinvolti nel negoziato sul nuovo Patto, non ha mancato di sottolineare che “il tempo non è illimitato”, e che senza un accordo “si torna alle regole precedenti”, con tutte le conseguenze legate alla rigidità estrema dei piani di rientro dal debito e all’indifferenza delle vecchie regole europee rispetto all’andamento del ciclo economico.
La sfida Salvini-Meloni
Tutte queste vicende, però, vanno a fondersi all’interno di un crogiuolo sempre più turbolento come quello dell’alleanza tra Fratelli d’Italia, la Lega e Forza Italia, alla vigilia dell’anno in cui si celebreranno le elezioni per il parlamento europeo e, successivamente, andrà rinnovata la Commissione, con una maggioranza nuova o con una riedizione della vecchia “maggioranza Ursula”, di centrodestra-sinistra, che ha retto la presidenza von der Leyen. C’è da vedere in quale misura Salvini si giocherà le sue carte proprio in chiave elettorale, per rilanciare la sua immagine un po’ appannata di castigatore dell’élite politica e finanziaria continentale, senza mettere troppo in difficoltà il suo ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti (poco propenso allo scontro frontale con Bruxelles), e senza tirare troppo la corda dell’alleanza di governo. A giudicare dalla manovra congiunta su autonomia regionale e presidenzialismo, e dalla prudenza messa in campo fra gli alleati sulla legge di bilancio “inemendabile”, gli equilibri interni sembrano reggere, a dispetto dei problemi di concorrenza. Ma il passaggio sul Mes rischia comunque di non essere indolore.