La sede del Senato della Repubblica, un tempo dimora rinascimentale di Margherita d’Asburgo (Madama d’Austria) alla quale deve il suo nome, ha svolto diverse funzioni per la famiglia de’ Medici prima, per lo Stato pontificio poi. Ha prestato i suoi spazi alla polizia e al tribunale criminale della “mala signoria teocratica”, come i rivoluzionari dell’Ottocento definivano il potere temporale del papa, come pure alla effimera avventura della Repubblica romana. Mai però aveva svolto funzioni militari: palazzo Madama non è mai stato un castello o un edificio fortificato. Lo è diventato – solo metaforicamente, però – in queste settimane con la scelta di concentrarvi i lavori parlamentari sulle riforme volute dal governo di destra-centro: il fortino delle riforme di Giorgia Meloni. Tra gli stucchi e i busti dei padri della patria, sono state piazzate le bocche da fuoco con le quali la maggioranza parlamentare intende bombardare, sempre metaforicamente, le mura ancora in piedi della Costituzione repubblicana.
Per garantirsi un percorso senza sorprese, il governo ha preteso di incardinare anche la riforma costituzionale per il cosiddetto premierato al Senato, dove ha già compiuto buona parte del suo iter il disegno di legge Calderoli sull’autonomia regionale differenziata (lo spacca-Italia, nella definizione dei suoi oppositori, ne abbiamo scritto in varie occasioni, per esempio qui e qui). Nessuno, in parlamento, dubita del fatto che tale scelta strategica risalga direttamente alla presidente del Consiglio e leader di Fratelli d’Italia. Una scelta indicativa delle reali intenzioni delle destre nel confronto parlamentare con le minoranze, in teoria doveroso sul piano del rispetto delle forme democratiche. Meloni vuole andare fino in fondo e diffida, dicono nei corridoi parlamentari, degli alleati. Predilige una linea di comando corta, canali di comunicazione diretti, lealtà e disciplina. Alla Camera, alla quale inizialmente pareva destinato il progetto dell’uomo solo al comando (o più probabilmente della donna), il presidente dell’assemblea è il leghista Lorenzo Fontana, quello della commissione Affari costituzionali, competente per materia, è Nazario Pagano, esponente di quella nave senza nocchiero che è oggi Forza Italia. Per quello che vale, Pagano ha garantito in una intervista di non essere dispiaciuto dello “scippo” e ha garantito il suo impegno e quello dei suoi. Ma per la scommessa delle scommesse, la riforma della democrazia plebiscitaria – accompagnata dall’altra forzatura sul premio di maggioranza nella legge elettorale, 55% dei seggi a chi superi il 30% dei voti, secondo le anticipazioni dei fedelissimi di Meloni – palazzo Chigi potrà contare su due certezze a palazzo Madama: l’esperienza del presidente del Senato, Ignazio La Russa, co-fondatore di Fratelli d’Italia, e l’affidabilità assoluta di Alberto Balboni, avvocato e storico militante della destra ferrarese, che presiede appunto la commissione Affari costituzionali.
La figura di Balboni è tutt’altro che secondaria, la sua lealtà nei confronti del ponte di comando è certificata: nei lunghi mesi di gestazione che il disegno di legge Calderoli per l’autonomia regionale differenziata ha vissuto al Senato nella “sua” commissione, molto raramente i gruppi di opposizione, pur lamentando forzature nelle procedure, lo hanno preso di mira personalmente. Non è un caso: il presidente della Affari costituzionali non ha mai stretto i tempi, ha dato ampio spazio procedurale alle audizioni e alle richieste delle opposizioni. Al contrario, un durissimo scontro c’è stato, nel mese di ottobre, proprio fra Balboni e il relatore leghista del disegno di legge Calderoli, Paolo Tosato, che pretendeva di accelerare i tempi nelle votazioni sugli emendamenti. A chi criticava il progetto di devoluzione di ulteriori poteri alle Regioni, Balboni ha ricordato che l’idea trova la sua legittimazione costituzionale nell’attuale assetto del Titolo V della Carta; iniziativa (sciagurata) del centrosinistra a guida D’Alema-Amato, a cavallo tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo secolo.
“Io ero contrario”, ha chiosato beffardo l’esponente meloniano nel corso dei lavori della commissione. Missione compiuta: Balboni ha preso tempo sull’autonomia regionale, quello che serviva per consentire al governo Meloni di licenziare la sua riforma costituzionale: il suo partito ha sempre sostenuto che le due cose, autonomia e presidenzialismo dovessero viaggiare di pari passo; mentre per il partito di Matteo Salvini l’autonomia deve partire a prescindere. Anche perché il leader del Carroccio ha salvato la poltrona di segretario proprio garantendo ai suoi colonnelli – Roberto Calderoli, Luca Zaia e Attilio Fontana – il via libera alla regionalizzazione entro il 2024. E poco o nulla cambia se la bandiera del presidenzialismo è stata rimpiazzata dal premierato, perché questa è la formula che consentirà, con l’annunciata adesione di Matteo Renzi, di rivendicare la condivisione con una parte delle “opposizioni”.
Come su molte materie rilevanti (Europa, immigrazione, pensioni) le crepe nella maggioranza ci sono e si vedono, o quantomeno si intravedono a giorni alterni. Finora, però, la competizione interna non ha incrinato il patto di governo. E per quello che si osserva dall’interno dei palazzi della politica, continua a sembrarci improbabile che nel passaggio doppio, nello scambio fra l’autonomia e il premierato si possa consumare una crisi del destra-centro talmente grave da disarcionare Giorgia Meloni. Se davvero vogliono tentare di salvare gli attuali equilibri costituzionali (dopo averli a più riprese destabilizzati, per esempio con la citata riforma del Titolo V o con l’inserimento nella Carta del pareggio di bilancio), le opposizioni faranno bene a prepararsi sin da ora all’appuntamento del referendum confermativo, che per ora non sembra evitabile, mancando a Meloni e alleati il necessario appoggio dei due terzi delle Camere.