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Liguria

Il Pd nel maelstrom. Il caso Liguria

Mentre l’orologio elettorale corre sempre più veloce, la Liguria fa i conti con un quadro politico che rischia di mostrarsi radicalmente mutato dopo il 25 settembre, e certo non in meglio. Con il taglio dei parlamentari, infatti, si ha una notevole riduzione della rappresentanza della regione, che complessivamente perde nove parlamentari, passando da 24 a 15. I senatori da 8 saranno tagliati a 5; i deputati da 16 a 10. L’ampliamento territoriale dei collegi, tra l’altro, ha conseguenze politiche rilevanti, dato che mina la compattezza di alcune zone storicamente “rosse”, allargandole verso l’estremo Ponente, da sempre appannaggio di Forza Italia e un tempo feudo della Dc.

Al Senato i collegi uninominali sono solo due: Genova rappresenta lo spartiacque, dato che il primo collegio abbraccia un territorio che va da Ventimiglia al municipio genovese di medio Ponente; il secondo va da Sampierdarena a Sarzana. Alla Liguria, inoltre, in considerazione della popolazione ridottasi a 1.570.000 abitanti, è stato assegnato un unico collegio plurinominale, con tre seggi. Per la Camera, invece, i collegi uninominali sono quattro: il primo comprende la provincia di Imperia e gran parte di quella di Savona; il secondo va da Albisola a Genova Ponente, includendo la Valpolcevera, la valle Scrivia, Montoggio e Casella; il terzo è quello di Genova Levante, che arriva sino a Sori e ingloba la val Trebbia; il quarto si estende da Recco a tutta la provincia di La Spezia. Anche per la Camera il collegio plurinominale è soltanto uno e assegna sei seggi. Una situazione, quindi, in cui alla rarefazione della rappresentanza corrisponde anche un venir meno di molti collegi “sicuri”. Ne ha dato conto in maniera drammatica l’Istituto Cattaneo che, nelle sue previsioni di fine luglio, ha visto una Liguria quasi completamente “azzurra”. Il centrodestra sembra avere nettamente più chance degli avversari in almeno tre collegi, mentre due vengono dati per “contendibili” e ne rimane solo uno – quello di Genova 3 – in cui il centrosinistra potrebbe sperare di piazzare un parlamentare.

Sui salari la Confindustria all’attacco

Non sono stati frequenti gli scontri fra il governo presieduto da Mario Draghi e la pur abitualmente rumorosa leadership di Confindustria. Ma nelle ultime settimane il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, è stato investito dalle accuse violente della più potente associazione imprenditoriale, che si è spinta addirittura a parlare di “ricatto” del ministro e, attraverso il suo quotidiano, di “scambio improvvisato tra incentivi alle imprese e aumenti salariali non meglio precisati”. Per precisarli, servirebbe l’apertura al confronto; ma gli industriali, abituati come sono da troppi anni a incassare favori, sconti fiscali e sussidi senza dover mai discutere contropartite, hanno reagito male all’idea di doversi misurare con una “questione salariale”. C’è mancato poco che il “Sole 24 Ore” desse del delinquente al ministro (un ricatto non è una azione particolarmente commendevole, per un rappresentante istituzionale).

Si presta a qualche stupore anche la reazione del ministro, che si è detto “sorpreso”, quasi si fosse distratto per qualche anno di fronte alla crescente radicalità delle posizioni – e dei toni – degli imprenditori. Di sicuro, non ci siamo sorpresi noi, che ricordiamo bene l’impegno profuso negli anni scorsi dalla Confindustria – e da quella parte piuttosto larga del mondo dell’informazione che risulta maggiormente sensibile alle sue posizioni – in direzione di un cambio di governo e della sostituzione di alcuni ministri, quello del Lavoro compreso. È difficile, tuttavia, dare torto a Orlando quando dice, con logica ineccepibile, che non ha capito “cosa si vuol mettere in questo patto, se significa chiedere qualcosa non è un patto”.

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Il Consiglio dei ministri ha varato il decreto-legge in sessantotto articoli che assembla la questione delle semplificazioni e il tema della governance del Piano di ripresa e resilienza. Lo ha fatto non senza qualche sofferenza all’interno della maggioranza e nel rapporto con le parti sociali. Il che merita più di una riflessione. Possiamo pure cominciare dall’esito finale, del quale tutti si dicono soddisfatti. Il che, vista la turbolenza in atto fino all’ultimo momento, ingenera qualche sospetto. Mario Draghi aveva convocato in fretta e furia i sindacati confederali giovedì 27 maggio per un confronto sui punti controversi. Si è discusso dei subappalti, ma non della scottante questione dei licenziamenti, che Draghi ha considerato formalmente chiusa.

Le modifiche hanno riguardato quindi il tema dei subappalti, visto che l’argomento del criterio del massimo ribasso nelle gare d’appalto è stato stralciato dal provvedimento legislativo. La soluzione trovata è stata quella di mantenere un tetto per i subappalti pari al 50% innalzandolo dall’attuale 40%. Dal 1° novembre il tetto dovrebbe sparire in ossequio alle sentenze della Corte di giustizia della Ue, come quella del 26 settembre 2019 che aveva considerato illegittima l’apposizione del limite indipendentemente dalla sua entità. Al suo posto, dovrebbe comparire un criterio alquanto indeterminato, basato sul fatto che l’affidamento dei lavori non potrà avvenire “in misura prevalente” e con il rafforzamento del “controllo delle condizioni di lavoro e di salute e di sicurezza dei lavoratori”. Una soluzione piuttosto scivolosa e rischiosa, poiché, come sappiamo, le capacità di controllo effettive sulle condizioni di lavoro nel nostro paese sono assai ridotte, anche per l’esiguità del numero degli ispettori del lavoro, come denunciato dall’ultimo Rapporto annuale dell’Ispettorato.