Le navi civili che cercavano di raggiungere Gaza sono state intercettate e fermate dalla marina israeliana, a circa centoventi miglia nautiche dalla costa, in acque internazionali. Decine di attivisti disarmati – tra cui medici, avvocati, studenti, giornalisti, pescatori – sono stati trattenuti senza che abbiano opposto resistenza. L’operazione è avvenuta rapidamente, dopo ore di tensione e blackout delle comunicazioni. La scorsa notte, diverse unità navali israeliane avevano già minacciato e isolato il convoglio. Poi è arrivato l’abbordaggio: un’azione che molti esperti definiscono di pirateria.
Tra le ultime testimonianze, arrivate prima dell’interruzione dei contatti, quella di David Adler, attivista e coordinatore della missione, che ha scritto una lettera consapevole e potente: “Non temiamo l’intercettazione. Temiamo un mondo in cui questi rapimenti diventino la norma. Un mondo in cui gli umanitari sono trattati come criminali. Un mondo in cui portare cibo ai bambini affamati viene chiamato terrorismo”.
Ci sono alcuni punti importanti da chiarire. Dal punto di vista del diritto internazionale, vi sono elementi ormai consolidati: uno di questi è l’illegalità del blocco imposto da Israele sulla Striscia di Gaza. Questo blocco – che non è recente ma risale al 2007, dopo l’avvento al potere di Hamas – è stato imposto in modo pressoché totale, includendo anche le acque prospicienti Gaza. Organismi internazionali, come la Croce rossa internazionale, diverse commissioni d’inchiesta dell’Onu e numerosi esperti indipendenti, hanno affermato in più occasioni che il blocco viola il diritto internazionale, in quanto costituisce una forma di punizione collettiva contro la popolazione civile. Si tratta di oltre due milioni di persone private sistematicamente dei loro diritti fondamentali.
Nel 2007, Israele ha dichiarato Gaza un’entità nemica. Da allora, ogni misura adottata nei confronti della Striscia è stata giustificata come parte di un conflitto con Hamas. Tuttavia, la popolazione civile ne è risultata direttamente colpita. E la natura e la legittimità di questa situazione sono state messe in discussione sul piano giuridico. Un momento cruciale è stato il parere consultivo emesso, nel luglio 2024, dalla Corte internazionale di giustizia, la più alta autorità giudiziaria delle Nazioni Unite. La Corte ha dichiarato che l’intera occupazione israeliana dei territori palestinesi è illegale. A seguito di questo pronunciamento, l’Assemblea generale dell’Onu, nel settembre dello stesso anno, ha adottato una risoluzione che stabiliva l’obbligo per Israele di porre fine all’occupazione entro un anno.
Ieri, 2 ottobre 2025, quel termine è scaduto. Ma l’occupazione continua. Israele afferma che le sue azioni rientrano in un contesto di guerra dichiarata, giustificando così il blocco totale di Gaza anche dal mare. Tuttavia, ci sono seri dubbi giuridici sulla possibilità di definire questa situazione una “guerra” in senso proprio. Si tratta piuttosto di un’operazione militare unilaterale, radicata in un’occupazione che, come detto, è illegittima secondo il diritto internazionale.
È in questo contesto che si inserisce l’azione degli attivisti della Global Flotilla, che cercano di richiamare l’attenzione della comunità internazionale e, in particolare, dei governi terzi – incluso quello italiano – affinché si assumano le loro responsabilità. La loro richiesta è semplice e coerente con quanto stabilito dalla Corte internazionale di giustizia e dall’Assemblea generale: il blocco di Gaza, in quanto parte integrante di un’occupazione illegale, deve cessare.
E c’è anche un dettaglio giuridico fondamentale che non può essere ignorato: le acque prospicienti Gaza non sono acque israeliane. Sono acque occupate, non riconosciute internazionalmente come parte dello Stato d’Israele. Definirle “territoriali” significa legittimare un’occupazione già dichiarata illegale dalla massima autorità giuridica dell’Onu. Comprendere questo quadro giuridico è fondamentale per valutare la legittimità delle azioni in corso, delle risposte militari, delle restrizioni umanitarie e delle iniziative di protesta. La base di partenza rimane il diritto internazionale, che impone il rispetto dei diritti umani e la fine di ogni forma di punizione collettiva nei confronti della popolazione civile.
La Flotilla è stata fermata. Ma non è stata fermata l’idea che rappresenta. Non si è fermato il desiderio di giustizia, né la possibilità concreta di costruire un’alternativa all’assedio. Dalle città italiane e non solo italiane, dalle università occupate, dalle scuole, dagli studenti, fino alle navi silenziate, la giornata di nonviolenza ci lascia una lezione amara ma essenziale: la solidarietà non è solo un principio, è una pratica. E quando viene criminalizzata, allora significa che sta davvero colpendo nel segno.










