Col passare del tempo alcune emozioni giovanili gradualmente si dimenticano, illanguidiscono nella memoria, e occorre sperimentarle nuovamente per ritrovarne il sapore. Così, venerdì scorso, le manifestazioni per Flotilla e la Palestina, a Genova, trascinano a ritroso nel tempo, riportano indietro l’orologio di almeno vent’anni, al soffocato e sconfitto G8 genovese. Anche allora un pezzo di città era sceso in piazza insieme ai manifestanti provenienti da ogni parte del mondo. La partecipazione dei genovesi alle giornate del G8 era stata grande e spesso taciuta, a testimoniare, ancora una volta, una secolare tradizione di presenza politica.
D’altra parte, già la sera della partenza della Flotilla la città era tutta lì, affacciata a salutare le barche. Venerdì 3 ottobre, i cortei sono stati due, uno al mattino indetto dalla Cgil, l’altro al pomeriggio con in testa i sindacati di base, nel complesso tra i due cortei sono sfilate almeno trentamila persone. L’evocazione del passato, l’accostamento al 2001, viene quasi spontaneo: lo producono il numero, la densità, la compattezza del serpentone umano che si è andato snodando sulla Soprelevata. Una compattezza sorprendente, una grande forza corale attraversata da un’emozione comune. Una determinazione che non si vedeva da tempo. Quando il corteo del pomeriggio, anch’esso enorme, partito dal porto, arriva alla stazione Principe, si esita un attimo sul da farsi, ma poi la gente preme, si accalca, ci si sente spingere da dietro, voci di ragazzi sconosciuti gridano: “Blocchiamo tutto!”. Si contratta, la polizia si ritira docilmente, sei binari su otto vengono bloccati. Non parte e non arriva nulla. Nessuno se ne vuole andare, si resta lì, padroni della stazione, padroni della città. Non circola un autobus, non circola un treno.
Racconti analoghi arrivano da Milano, da Torino, da Roma, da Bologna, da Palermo, da Napoli, dove si sfondano i cordoni di polizia e viene paralizzato il porto. Anche da Genova non salpa più nulla con destinazione Israele. I portuali commentano, ironicamente, l’arrogante performance del ministro Ben Gvir, la sfilata irridente contro gli arrestati di Flotilla ammassati per terra come criminali di infimo ordine, invitandolo a venire a Genova ad assaggiare un po’ di “ospitalità genovese” – e incitano a prolungare il blocco per tutto il fine settimana. Si parla di due milioni di persone che si sono mobilitate in tutto il Paese. E sabato, a Roma, altrettanto gigantesca e imponente è stata la partecipazione alla manifestazione nazionale.
Il governo reagisce in maniera scomposta. Nessun accenno di mediazione politica, di intelligenza o di ripensamento. Minacce grottesche, considerazioni da bar, farfugliamenti patetici sul “costo dei cortei”, argomentazioni indegne di una compagine governativa. Serpeggiano sconcerto e paura. In tv gli “opinionisti” di destra si esibiscono in dichiarazioni paradossali, che vanno dal riprendere le veline del governo israeliano sulla presenza di droga a bordo delle imbarcazioni, in luogo dei viveri, fino a velenose insinuazioni su finanziamenti della spedizione da parte di Hamas. Giunge così pure per loro la resa dei conti, il momento della paradossale apoteosi e insieme del crollo dei mostri del talk-show, precipitati in una situazione in cui raggiungono il limite parossistico delle possibilità di esibizionismo mediatico, di alterazione della realtà, e in cui l’incapacità di confutare le argomentazioni altrui si traduce – come suggeriva Schopenhauer nel trattatello Sull’arte di aver ragione – nell’estremo ricorso all’insulto, all’argomento ad hominem, al buttarla in “caciara”, all’urlio inarticolato.
Gli urlatori di professione gridano, e sembrano con le loro strida volere esorcizzare quelle piazze ricolme che metaforicamente li assediano, li circondano, ancora più di quanto non li stringano i discorsi dei loro interlocutori. La misura è colma, gli “intellettuali” di destra appaiono singolarmente nudi, sprovvisti di argomenti, smarriti. Sono giornate probabilmente destinate a rimanere nella storia. D’improvviso la presa si è allentata, la cappa soffocante che gravava sulla società italiana si è sollevata, c’è un sussulto delle coscienze. Si moltiplicano gli appelli, le petizioni, università importanti prendono posizione. Si innesca una catena che sarà difficile interrompere.
La lunga assenza di una governance della rabbia e dell’indignazione che crescevano nel Paese, l’illusione governativa di poter controllare la marea che stava salendo solo con gli strumenti della repressione (e con retoriche da due soldi) mostrano la loro inadeguatezza rispetto a un vento che pare molto difficile trattenere. L’influencer presidente del Consiglio si ritrova a un tratto solo influencer, e per di più screditata, spiazzata. Mai come in questo frangente la classe politica ha mostrato la propria miseria, l’arretratezza culturale, la grettezza della visione, il distacco dal Paese reale. Dopo quanto è avvenuto, chi spera in un rapido “ritorno alla normalità” si illude. Troppo grande è stato l’impatto, e le soggettività che fanno capolino non sembrano per il momento intenzionate a rientrare nei ranghi.
Certo, è una protesta che solo in Italia pare assumere dimensioni così travolgenti, anche se riecheggia, come mostrano Parigi e la Spagna, nel resto d’Europa. Ma se da noi sviluppa tratti addirittura dilaganti, è perché non c’è solo la vicenda di Flotilla, non ci sono solo Gaza e il massacro in Palestina, non solo gli scenari di guerra che incombono; dietro la rabbia che sfila, c’è un Paese bistrattato e impoverito, sempre più disperatamente diseguale, alla ricerca di un’opportunità di riscatto e di rilancio. Si è ingoiato anche troppo. Ora c’è una richiesta forte di inversione di rotta, che non si potrà gestire solo con la militarizzazione e i decreti sicurezza, nel momento in cui le piazze vogliono tornare a dire la loro.
Chi pensava di potere abituare l’asino a non mangiare senza prendersi nemmeno un calcetto, dovrà ricredersi. Il tappo è saltato, e per chi è al potere sarà assai difficile rimetterlo sulla bottiglia.









