Il nostro Paese è bloccato. Non da un’emergenza momentanea o da una crisi passeggera, ma da una patologia strutturale che si autoalimenta: una disuguaglianza così profonda da essersi trasformata in una vera e propria “spirale dei privilegi”. È un meccanismo perverso in cui un vantaggio acquisito in un campo – patrimonio, istruzione, relazioni – si converte automaticamente in un accesso privilegiato in tutti gli altri, creando di fatto un sistema di caste che soffoca il talento, nega le opportunità e cristallizza le gerarchie.
I dati, raccolti e analizzati nel prezioso volume Non è giusta. L’Italia delle disuguaglianze (a cura di Giacomo Gabbuti, edito da Laterza, con il sostegno della Fondazione per la critica sociale), sono impietosi e descrivono una nazione spaccata. Mentre lo 0,1% più ricco della popolazione ha quasi raddoppiato la propria quota di patrimonio dal 1995, la metà più povera degli italiani ha visto la sua ricchezza reale crollare da 27.000 a soli 7.000 euro. Il divario retributivo tra un manager e un operaio è esploso, passando da quattro a undici volte in poco più di trent’anni. Questa non è una semplice fotografia; è la cronaca di un patto sociale andato in frantumi.
La falsa guerra tra generazioni
In questo scenario, il dibattito pubblico viene inquinato da narrazioni tossiche che deviano l’attenzione dai veri nodi del problema. La più logora è quella sulla questione pensionistica, perennemente descritta come un’apocalittica guerra tra “giovani” e “vecchi privilegiati”. Da oltre trent’anni, ci viene ripetuto che “non ci sono i soldi”, e che l’unica soluzione è lavorare di più e ricevere di meno.
Questa visione – come spiegato da Gustavo De Santis, in Nati con la pensione (edito dal Mulino) – è un potente diversivo. Il sistema pensionistico non è un campo di battaglia generazionale, ma una “grande pasticceria collettiva”. Ogni giorno, i lavoratori (i pasticceri) producono una torta che viene divisa tra tutti, pensionati inclusi (i commensali). Il problema non è la presunta ingordigia di una generazione, ma le regole con cui si produce e si divide la torta comune. Miti come quello degli “anziani poveri” (nel 2018 il loro reddito disponibile era in linea con la media nazionale) o delle “pensioni generose che liberano posti per i giovani” (una fallacia economica che ignora la natura dinamica del mercato del lavoro) servono solo a oscurare la vera posta in gioco: la definizione stessa di cittadinanza sociale.
Un sistema puramente contributivo, in un mondo di carriere precarie e discontinue, non fa che amplificare le disuguaglianze esistenti, premiando chi ha avuto stabilità e penalizzando chi è stato escluso. La proposta di un sistema come l’Ipayg (Improved Pay-As-You-Go), che lega le pensioni al reddito medio della collettività, va nella giusta direzione: trasforma un diritto individuale basato sull’accumulo privato in una garanzia collettiva legata al benessere comune.
All’origine della disuguaglianza: il potere dell’eredità
Se vogliamo davvero spezzare la spirale dei privilegi, dobbiamo avere il coraggio di guardare alla sua radice: la trasmissione ereditaria della ricchezza. In Italia, il flusso annuo delle eredità è raddoppiato, raggiungendo il 15% del Pil, circa 250 miliardi di euro. Non si tratta solo di denaro, ma della monopolizzazione di opportunità: le famiglie ricche trasmettono accesso a scuole di élite, carriere selettive e reti di potere, in un circolo vizioso che si autoalimenta.
È qui che riemerge con forza profetica la proposta, vecchia di un secolo ma attualissima, dell’economista Eugenio Rignano. La sua idea era tanto semplice quanto rivoluzionaria: una tassa di successione fortemente progressiva, ma non basata sull’ammontare del patrimonio, bensì sul numero di trasferimenti generazionali. Una parte della ricchezza verrebbe tassata in modo contenuto nel primo passaggio (per es. da padre a figlio), ma con aliquote crescenti nei passaggi successivi, fino a un ritorno quasi totale alla collettività dopo due o tre generazioni. L’obiettivo non era punire la ricchezza, ma impedirne la fossilizzazione in dinastie perenni, immettendo costantemente risorse nuove nella società per finanziare istruzione, sanità e welfare universali.
Questa logica risuona oggi nel dibattito francese, animato dalla proposta dell’economista Gabriel Zucman di una tassa patrimoniale europea sui grandi patrimoni. Entrambe le idee partono dalla stessa constatazione: in un’economia dove i rendimenti del capitale superano sistematicamente il tasso di crescita, le disuguaglianze sono destinate a esplodere se non si interviene direttamente sugli stock di ricchezza accumulata.
Tassare senza disincentivare: la via della proporzionalità
L’obiezione è sempre la stessa: una tassazione più alta, specie sui redditi e sui patrimoni, ucciderebbe l’incentivo a lavorare, a innovare, a intraprendere. Ma questa critica si fonda su un presupposto errato: che a motivarci sia unicamente il reddito assoluto. In realtà, superata una soglia di benessere, ciò che conta è il reddito relativo, ovvero la nostra posizione rispetto agli altri. Il desiderio di status, il confronto sociale e le aspettative sono motori psicologici ben più potenti del mero accumulo.
Da questa intuizione nasce la proposta di Kaushik Basu di una “tassa a fisarmonica”: un sistema fiscale progressivo che riduce i divari ma mantiene inalterate le proporzioni relative tra i redditi, prima e dopo la tassazione. Se una persona guadagna il doppio di un’altra prima delle tasse, continuerà a guadagnare il doppio anche dopo, sebbene la forbice complessiva si sia ridotta. In questo modo, l’incentivo a migliorare la propria posizione relativa rimane intatto, smontando alla radice l’argomento della demotivazione.
Un nuovo patto per il futuro
Le soluzioni tecniche, dunque, esistono. Possiamo ridisegnare un sistema pensionistico fondato sulla solidarietà collettiva e non sull’accumulo individuale. Possiamo introdurre forme di tassazione ereditaria e patrimoniale che spezzino la spirale dei privilegi. Possiamo implementare un fisco progressivo che non deprima il dinamismo economico.
La vera domanda non è tecnica, ma politica. Significa decidere se continuare a pensarci come individui in competizione per accaparrarsi una fetta più grande di una torta sempre più risicata, o se riconoscerci come cittadini che condividono un destino comune. Significa smettere di scaricare i costi sulle generazioni future o sulle fasce più deboli e iniziare a “ridefinire le regole del banchetto”, ricordando che la pasticceria è e deve rimanere collettiva. Solo così potremo passare da un sistema che garantisce la progressiva diseguaglianza delle opportunità a uno che costruisce attivamente l’uguaglianza.





