C’è qualcosa di nuovo nell’aria, come si può ricavare anche dall’editoriale di Agostino Petrillo (vedi qui), un vento di partecipazione democratica, che viene da quanto sta accadendo a Gaza. Salta agli occhi un possibile paragone con quanto avveniva, più di mezzo secolo fa, intorno alla “sporca guerra” nel Vietnam. A quei tempi si andava in piazza, giovani e meno giovani, per chiedere di porre fine a una guerra come quella degli Stati Uniti di Kennedy, di Johnson e poi di Nixon, con tutto il suo corredo di orrori, ben evidenziati da una foto simbolo ricordata da Mario Pezzella (vedi qui); e ancor più per cercare di rompere – cosa del resto impossibile all’epoca – lo stretto legame del nostro Paese, e dell’Europa in genere, con la super-potenza nordamericana. Ciò avveniva nel segno di un’utopia che era insieme di pace e di socialismo – anche se poi (e non fu facile ammetterlo) si scoprì che il “Vietnam rosso” era un Paese tutt’altro che esemplare. Ma poco importa: pur con il senno di poi, quella battaglia a favore del Vietnam andava comunque sostenuta.
Ora certamente il contesto è differente. Non c’è, per dirne una, un dirigente politico come Ho-Chi-Minh cui fare riferimento, né un capo militare come Giap; non c’è un movimento comunista impegnato in una riscossa nazionale e nella riunificazione di un Paese smembrato dal colonialismo, come appunto nel caso del Vietnam. I leader di Hamas, e dei suoi alleati sul terreno, non sono nemmeno lontanamente degli eroi; sono piuttosto dei sottoprodotti dell’incancrenirsi di una situazione (che dura dal 1948) e di cui il maggiore responsabile è Israele, che, pervicacemente sfuggendo a ogni progetto di pace, ha svuotato lo stesso suo interlocutore, cioè quell’Autorità nazionale palestinese che conta oggi pochissimo ed è accusata, da molti, di collaborare con l’oppressione.
Però proprio da questa diversità tra le illusioni di allora circa l’incondizionata “bontà” della causa vietnamita, e quanto sta invece accadendo in un momento come quello odierno, in cui non c’è da fare riferimento a nulla, e c’è anzi la mancanza di una prospettiva a breve per la causa palestinese, nasce paradossalmente la possibilità di un paragone tra le due cose: in un caso e nell’altro, siamo dinanzi a una rivolta della coscienza civile, anche al di là di qualsiasi discorso strettamente politico. E oggi più di ieri è in gioco la dignità di chi – educato, dopo la Seconda guerra mondiale, alla ripulsa di ogni sterminio di massa – per coerenza non può rimanere inerte dinanzi all’intollerabilità di quanto si sta consumando (fino a poco tempo fa nella quasi totale indifferenza della maggior parte degli Stati europei) ai danni del popolo palestinese.
In prospettiva, soltanto la soluzione dei due Stati potrebbe, se non proprio mettere fine al conflitto, almeno ridurne il tasso di violenza. Ma questa prospettiva è impedita anzitutto da Israele. Al momento, è fuori dall’agenda. Ed è per questo, perché non lascia intravedere la nascita di uno Stato di Palestina, che il piano di Trump è aria fritta: più una richiesta di resa che un piano di pace (vedi qui).
In questa situazione, allora, con una mobilitazione di massa in corso, sembra un po’ nascondersi dietro una foglia di fico astenersi in parlamento – come hanno fatto i rappresentanti delle opposizioni – sul documento di maggioranza che sostiene il piano di Trump. Questo significa non essere del tutto in sintonia con il vento di partecipazione che soffia dalle tante manifestazioni per una Palestina libera. Le opposizioni avrebbero dovuto sganciarsi, con un voto apertamente contrario, da una limacciosa “volontà di pace” che può addirittura servire a Israele come pretesto per condurre a termine lo sterminio. Nella pressoché completa certezza che nemmeno quei corridoi di aiuti umanitari gestiti nuovamente dall’Onu, di cui pure ci sarebbe una traccia nel piano di Trump, saranno riaperti.








