
Viviamo in un’epoca in cui la realtà virtuale, nella sua forma più immersiva e diffusa, ha modificato profondamente la percezione del corpo, della vita e della morte. I videogiochi, i metaversi, le simulazioni digitali – ambienti in cui si può “morire” infinite volte senza conseguenze reali – hanno contribuito a creare una dissociazione simbolica tra l’atto e la sua irrevocabilità. In questi contesti, la morte non è fine, ma pausa. Non è trauma, ma occasione per ricominciare. Questa logica ha lentamente infiltrato l’immaginario collettivo, soprattutto tra i più giovani, dando vita a una “desensibilizzazione dell’irreparabile”. Il femminicidio, fenomeno tragicamente in crescita tra le generazioni più giovani, sembra inscriversi in questo orizzonte antropologico.
La figlia era morta. Loro non lo sapevano. E non sapevano di condividere i febbrili momenti della ricerca della ragazza scomparsa proprio con il ragazzo che l’aveva uccisa. “Io avevo l’assassino di mia figlia in macchina e non lo sapevo. Dopo l’omicidio, lui è tornato a casa, si è andato a fare la doccia, ha mangiato ed è uscito”. Queste le parole del padre di Martina, 14 anni, uccisa dal suo ex fidanzato Alessio.
L’uccisione di una donna non è più percepita, in certi contesti deviati, come un atto assoluto, irreversibile, ma come un gesto “narrativo”, parte di un copione violento che può essere giustificato, resettato o dimenticato. La gravità ontologica della morte – il fatto che essa tolga il mondo a chi muore e, nel contempo, distrugga buona parte del mondo di chi resta – sembra non essere più pienamente compresa o sentita. Nel pensiero di un filosofo come Heidegger, la morte è ciò che dà senso alla vita, perché la rende finita, preziosa, unica. Ma se la morte è resa “ripetibile”, “correggibile”, “non definitiva”, attraverso le esperienze digitali quotidiane, allora anche la vita perde la sua sacralità. Si muore una volta sola. Per sempre. Dopo, quella persona non esisterà più fisicamente nel mondo. Ma siamo di fronte a una generazione immersa nella narrazione digitale, in cui la morte appare talvolta come un reset, una possibilità di fuga, un passaggio a un’altra dimensione priva di responsabilità o dolore. La realtà è ben diversa. Il femminicidio è violenza irreversibile. È la morte reale di donne reali. Ed è anche il fallimento di una società che si affida a mondi fittizi per evitare di affrontare i problemi concreti.
Questo non significa che la realtà virtuale sia la causa del femminicidio, ma che essa contribuisce a costruire un clima culturale in cui l’altro, in particolare la donna, può essere oggettificato, ridotto a personaggio, a funzione narrativa della propria frustrazione o narcisismo. I femminicidi non sono “crimini passionali”. Sono atti di potere, di dominazione e di cultura patriarcale. E quando a uccidere sono ragazzi ventenni e meno che ventenni, non possiamo più liquidare la questione come un’eccezione. È il sintomo di un’intera cultura che ha fallito nel trasmettere l’idea di parità, rispetto e limite: sintomo di una più ampia crisi simbolica.
In un mondo in cui tutto è simulabile, condivisibile e reversibile, il confine tra la fantasia e l’azione concreta si fa sottile, e l’empatia – ossia la capacità di sentire l’altro come essere senziente, vivo, irripetibile – rischia di svanire. Se la cultura non è accompagnata da una formazione etica e affettiva solida, capace di restituire senso alla responsabilità, al rispetto e alla finitudine, può diventare terreno fertile per un agire distruttivo. Serve un’educazione alla realtà, che non significa rifiuto della tecnologia ma riumanizzazione dello sguardo: riconoscere l’altro come assoluto, come vita che non si può “ricaricare”, corpo che soffre e muore.
In Italia andrebbe compreso, una volta per tutte, che la conoscenza e la formazione non sono un costo per lo Stato ma un investimento. C’è un’emergenza culturale e sociale, e la politica italiana (e non solo) resta colpevolmente silente o marginale. Si parla di metaverso come opportunità economica, e si ignorano le sue implicazioni psicologiche e culturali. Si invocano leggi più dure contro i femminicidi solo dopo l’ennesimo caso mediatico, senza affrontare le cause profonde del problema. Un dibattito pubblico, spesso alimentato da slogan, non basta. Serve un progetto politico che metta al centro l’educazione sentimentale nelle scuole, l’analisi critica dei linguaggi digitali, il contrasto ai modelli maschilisti che invadono social, pornografia, influencer, videogiochi. Dobbiamo ripensare il ruolo delle tecnologie: il metaverso, l’intelligenza artificiale, le realtà aumentate non devono diventare zone franche in cui la violenza si anestetizza. Al contrario, questi strumenti possono e devono essere usati per costruire empatia, conoscenza e responsabilità. La morte non è un pulsante da premere. La vita delle donne non può essere un sacrificio silenzioso sull’altare dell’indifferenza politica e dell’anestesia digitale. Serve una presa di posizione chiara e coraggiosa: politica, culturale, educativa. Perché non è nel metaverso che si forma il sangue. È nel presente, nella scuola, nella legge, nei media, nella famiglia. E, soprattutto, nella volontà politica di fare e agire.