Nel libro Idrogeno il nuovo oro, uscito nel 2022, il fisico Nicola Conenna (ex dirigente di Greenpeace) afferma che “attraverso l’uso dell’idrogeno l’umanità potrà vivere una nuova età dell’oro con un benessere diffuso in tutto il pianeta”: dunque esso è destinato a sostituire quello che è stato conosciuto da anni come “oro nero”, diventando appunto “il nuovo oro” dell’economia mondiale. Per capire l’importanza dell’idrogeno, bisogna tener presente che le energie rinnovabili, su cui l’Europa e l’Onu stanno puntando tutto per risolvere la crisi climatica, presentano un solo grave problema: sono discontinue. Ma “la soluzione per uscire da questa grave impasse ecologica e tecnologica c’è: un rivoluzionario serbatoio di energia, l’idrogeno, che è l’elemento più semplice e diffuso nell’universo, il cui sfruttamento potrà creare le condizioni per una redistribuzione del potere e della ricchezza generando il primo regime veramente democratico nella storia dell’umanità”: così, profeticamente, Jeremy Rifkin nel suo saggio del 2002, Economia all’idrogeno. Le tecnologie dell’idrogeno sono semplici, sicure, accessibili a tutti, se consideriamo che – dalla pubblicazione del libro di Rifkin a oggi – i loro costi sono già diminuiti con un fattore di dieci, e che, quando si creeranno le economie di scala del mercato previsto per l’idrogeno, tali costi subiranno un’ulteriore diminuzione fino a dimezzarsi.
L’idrogeno risolve il problema della discontinuità, perché permette di accumulare energia attraverso due processi complementari e interconnessi: l’elettrolisi, che scinde la molecola dell’acqua in ossigeno e idrogeno, e la riassociazione molecolare nelle cosiddette celle a combustibile (o fuel cells). In altre parole, l’idrogeno permette di avere energia dal sole anche di notte o dal vento anche quando c’è calma piatta. Questo ha portato l’Unione europea ad approvare una “strategia per l’idrogeno per un’Europa climaticamente neutra” (Comunicazione 301, dell’8 luglio 2020) che prevede investimenti cumulativi per l’idrogeno verde fino a 470 miliardi di euro, per un mercato di 630 miliardi di euro l’anno, riducendo le emissioni di gas a effetto serra di almeno il 55% entro il 2030, e con investimenti cumulativi nell’idrogeno rinnovabile che, nella sola Europa, potrebbero raggiungere i 470 miliardi di euro entro il 2050, per complessivi seimila MW di elettrolizzatori da installarsi entro la fine di quest’anno e quarantamila entro il 2030.
Bisogna comprendere che l’idrogeno è fondamentale, nella strategia coraggiosa e climaticamente ambiziosa adottata da Ursula von der Leyen, che ha fissato la scadenza del 2050 come data ultima per raggiungere la climate neutrality e la totale decarbonizzazione del sistema energetico. Questo significa che, al 2050, tutta l’energia e l’elettricità prodotte per industria, mobilità, utenze domestiche, servizi e società in generale, dovranno provenire dalle fonti rinnovabili. Perché ciò avvenga, bisogna superare il problema della discontinuità. Ed ecco allora l’importanza dell’idrogeno.
Oggi il mercato delle tecnologie dell’idrogeno, peraltro prodotto esclusivamente da combustibili fossili, quindi “nero” (da petrolio) o “grigio” (da metano), è trascurabile in Europa e inesistente in Italia. Tuttavia, le cose sono destinate a cambiare rapidamente, se si vuole davvero raggiungere l’obiettivo del Green Deal europeo, quello di un’Europa climaticamente neutra, e avanzare verso l’energia pulita.
La diffusione rapida e su larga scala dell’idrogeno pulito, fondamentale oggi per l’Europa, lo era già per Angela Merkel, promotrice della strategia poi adottata dalla Commissione Prodi, conosciuta come Hydrogen and Fuel cell Technology platform, che fece partire tutte le strategie ambientali e di sostenibilità energetica europee. Anche l’intensità occupazionale di questa tecnologia è assolutamente inedita nel settore dell’energia. Infatti, considerando gli obiettivi di cui sopra, si calcola che l’emergere delle filiere dell’idrogeno avrà come ricaduta una intensità occupazionale fino a potere impiegare un milione di persone, direttamente o indirettamente. Uno studio di Hydrogen Europe del 2020 prevede addirittura che si potrebbero creare fino a quindici posti di lavoro per ogni milione di euro investito nelle diverse filiere dell’idrogeno. Lo studio calcola anche che gli investimenti nelle tecnologie dell’idrogeno hanno un ritorno rapido e consistente, vicino a 150% del capitale investito, con un effetto leva di 2.67, di gran lunga superiore alle più rosee previsioni, e che uno stimoulous package del valore di 130 miliardi potrebbe generare all’incirca un milione e mezzo di posti di lavoro, stabili e altamente qualificati, solo in Europa. Secondo un altro studio, effettuato dal think tank Climate Ch2ampions, creato dall’International Hydrogen Council, “un mondo alimentato da energie potrebbe contare sulla creazione di milioni di nuovi posti di lavoro che non sarebbero mai stati creati dalle fonti energetiche tradizionali di origine fossile”, e potrebbe generare fino a trenta milioni di posti di lavoro entro il 2050, con un mercato che potrebbe raggiungere i 2.500 miliardi di dollari annuali aggiuntivi nell’economia mondiale (per approfondire, vedi qui).
Il problema è che si tratta di figure professionali e competenze che, al momento, da noi sono inesistenti o rarissime. Riuscirà l’Italia a fare uno sforzo straordinario di formazione, con appositi programmi accelerati, per mettersi al passo con gli altri Paesi europei (come Francia, Germania, Regno Unito e Spagna), dove queste figure professionali si stanno sviluppando da anni?