
In fondo Cop28 non poteva finire troppo male. Il sultano Al-Jaber, che presiedeva la conferenza, deve essersene reso conto. Così in extremis, sfruttando fino all’ultimo il giorno ulteriore di proroga della conferenza, dopo una notte di estenuanti discussioni, è stato dato alla luce un documento ampiamente condiviso, che introduce qualche elemento nuovo rispetto a quanto era precedentemente emerso. Per la prima volta, in una conferenza sul clima delle Nazioni Unite, viene richiesto l’abbandono dei combustibili fossili. Tuttavia, il phase-out, la chiara eliminazione dei fossili, richiesta da oltre cento Paesi, non è stata inclusa nel testo finale, e ci si limita a parlare di una “transizione”.
La battaglia concettuale e linguistica sulla fine di carbone, petrolio e gas è dunque tutt’altro che chiusa. In ogni caso, i quasi duecento Paesi riuniti a Dubai hanno approvato almeno il global stocktake, cioè il bilancio globale degli impegni presi a tutela dell’ambiente. L’elemento più interessante della risoluzione è la spinta a triplicare la capacità globale di produrre energia rinnovabile entro il 2030, e a raddoppiare l’efficienza energetica nello stesso periodo. Anche se sono in ogni caso presenti nel testo riferimenti non chiarissimi a “energie di transizione”, come il gas naturale, e alle controverse tecnologie per la cattura e lo stoccaggio della CO2.
Al-Jaber ha definito “storico” l’accordo, e al di là del tentativo di fare passare per un successo una conferenza in cui la presenza massiccia dei petrolieri e delle lobby del fossile ha paralizzato per molti giorni il dibattito prima del rush finale, è però vero che in precedenza, mai prima d’ora, il mondo si era schierato così chiaramente contro l’uso continuato dei combustibili tradizionali. Anche perché se si guarda un attimo indietro, per assurdo che possa sembrare, carbone, petrolio e gas sono stati al centro della scena delle conferenze sul clima solo a partire da Glasgow nel 2021. Fino ad allora, i combustibili fossili – responsabili di circa il 75% delle emissioni globali – erano il proverbiale “elefante nella stanza”, di cui negli incontri internazionali non si parlava. Da Dubai è uscito finalmente il primo testo che contenga l’espressione “combustibili fossili”.
Se a Glasgow, quantomeno a parole, era stata almeno decisa la fine del carbone, per decretare la fuoriuscita da gas e petrolio, che a Dubai è stata unicamente menzionata, bisognerà comunque attendere ancora. Difficile, perciò, dire quanto “storico” sia l’accordo raggiunto. Le reazioni internazionali non sono unanimi: il commissario europeo per l’Azione per il clima, Wopke Hoekstra, ha espresso la sua soddisfazione: “Per la prima volta in trent’anni, potremmo raggiungere l’inizio della fine dei combustibili fossili”. Anche il ministro degli Esteri tedesco, Annalena Baerbock, pare soddisfatta dell’accordo: “Abbiamo dimostrato che possiamo percorrere il cammino insieme se uniamo le forze”, ha dichiarato; sulla stessa linea Ursula von der Leyen, che ha espresso il suo apprezzamento per il risultato raggiunto.
Meno contente le organizzazioni ambientaliste e i rappresentanti degli Stati più direttamente minacciati dal riscaldamento globale, che hanno portato a casa solo gli spiccioli del fondo Loss and Damages (“perdite e danni”), finalmente costituito, ma al momento molto modestamente dotato. Sven Harmeling, responsabile delle politiche climatiche di Care International, ha osservato mestamente: “Anche se le disposizioni attuali fossero pienamente attuate, milioni di persone nel Sud del mondo si troverebbero comunque ad affrontare inondazioni, incendi e carestie e sarebbero sull’orlo di una catastrofe climatica”.
Per i piccoli Stati insulari, la cui esistenza è già minacciata, quanto emerso a Dubai non è certo sufficiente. C’è, infatti, un grande divario tra l’aumento delle emissioni di CO2 e il percorso di riduzione scientificamente richiesto. L’eventuale correzione di rotta giunge già in grave ritardo. Inoltre, la dichiarazione finale presenta aspetti negativi e lacune preoccupanti, come l’enfasi sul ruolo del gas naturale quale soluzione transitoria. “I Paesi produttori e l’industria dei combustibili fossili vedranno questo come un lasciapassare per l’espansione della produzione di gas”, ha spiegato Jan Kowalzig di Oxfam.
Non c’è poi alcuna spiegazione su quando l’annunciata “transizione” finirà; e ciò che manca in questa risoluzione sono le cifre concrete, non si dice di quanto si ridurrà e in quali tempi. Il documento finale non individua l’arco di tempo in cui deve avvenire la transizione dai combustibili fossili. Per lo meno c’è scritto: in conformità con il percorso di 1,5 gradi. Il che è molto importante, dato che significa che occorre dimezzare le emissioni globali di gas serra entro il 2030. Un obiettivo che diventa sempre più difficile da raggiungere, perché si è rimandato per decenni. Come ha notato il climatologo Stefan Rahmstorf della Università di Potsdam, in una intervista rilasciata alla “Tagesschau”, se si fosse cominciato a ridurre le emissioni dopo il vertice sul clima di Rio del 1992, lo si sarebbe potuto fare in maniera molto graduale. Ma a causa delle numerose resistenze, soprattutto da parte dei gruppi di interesse, si è ritardato sempre di più. Ora diventa necessario frenare bruscamente le emissioni globali se si vuole realmente raggiungere l’obiettivo generalmente riconosciuto del contenimento dell’aumento delle temperature entro 1,5 gradi che tutti i Paesi hanno sottoscritto a Parigi. E questo è anche quel che dice il nuovo documento finale: bisogna stare entro 1,5 gradi. Rahmstorf ha aggiunto: “Probabilmente supereremo questi 1,5 gradi sempre più spesso, come possiamo vedere dagli innumerevoli eventi meteorologici estremi. Con l’ulteriore riscaldamento, parti dei tropici diventeranno così calde da divenire pressoché inabitabili. E questo interesserà centinaia di milioni di persone che dovranno cercare luoghi migliori in cui vivere”. Tanto più complessa appare dunque la frenata che occorre mettere in atto, quanto più nebulosi sono i termini degli interventi concreti.
Il documento finale è inoltre relativamente poco vincolante. D’altro canto, le realtà sociali del Sud globale non possono tenere il ritmo della transizione energetica che si sta stabilendo, in parte per motivi tecnici, in parte perché non possono finanziarla. E quindi mancano gli impegni economici concreti. Questo sarà inevitabilmente il tema centrale della Cop29 che si terrà a Baku, in Azerbaigian, l’anno prossimo. Ma i Paesi del Nord del mondo sono pronti a finanziare la transizione energetica del Sud del mondo?
Gli studiosi di domani, se esisteranno, rimarranno perplessi di fronte al succedersi delle conferenze sul clima a partire dagli accordi di Parigi del 2015, e ai loro modestissimi esiti. Da Cop26 a Glasgow fino a Cop28 a Dubai, passando per Cop27 a Sharm-el-Sheik, le conferenze sono state per lo più un “discendendo” di delusioni: obiettivi vaghi e accordi al ribasso, patteggiamenti miserevoli e linguaggi sempre più sfumati per descrivere fenomeni ormai ampiamente fuori controllo. A Dubai, al di là delle pur importanti acquisizioni dell’ultimo momento, la svolta storica necessaria e ineludibile per fare fronte al riscaldamento globale non si è ancora vista.