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Il governo e il culto della moderazione salariale

Il Def presentato dall’esecutivo Meloni è in linea con la religione degli ultimi trent’anni. Ma il costo del lavoro c’entra poco con un’inflazione che è anche “da profitti”

19 Aprile 2023 Paolo Barbieri  941

Il Protocollo sulla politica dei redditi e dell’occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno al sistema produttivo (vaste programme, avrebbe commentato il generale De Gaulle), fu siglato formalmente il 23 luglio del 1993 dai massimi dirigenti dei sindacati confederali, della Confindustria e di altre organizzazioni minori, sindacali e d’impresa. Raggiunto sotto l’egida del governo presieduto da Carlo Azeglio Ciampi, un anno dopo la fine della “scala mobile” che garantiva la tenuta dei salari rispetto all’inflazione, rappresenta un evento mitico, quasi un rito di fondazione per gli adepti della religione della “moderazione salariale”.

All’epoca, Giorgia Meloni aveva 16 anni, e secondo le note biografiche rintracciabili online si era iscritta da poco al Fronte della gioventù; Giancarlo Giorgetti, invece, lo aveva abbandonato da non molto per la promettente avventura nella nascente Lega Nord. Per avere una idea della distanza siderale che, apparentemente, ci separa da quell’epoca, parliamo dell’anno precedente al 1994, quando Gianfranco Fini dichiarò serenamente, in un’intervista alla “Stampa”, che Benito Mussolini era stato “il più grande statista del secolo”. Proprio lui, il Fini fondatore di Alleanza nazionale, traghettatore-modernizzatore della destra postfascista del Movimento sociale italiano, sorto dalle ceneri della Repubblica sociale.

Trent’anni dopo sappiamo com’è andata

Un salto temporale di trent’anni ci porta al Documento di economia e finanza (Def) varato dal governo Meloni l’11 aprile scorso. Il quale, per l’appunto, ignora completamente come siano andate le cose nei passati trent’anni, quali siano stati gli effetti concreti della politica di moderazione salariale, combinata peraltro con lo smantellamento del sistema economico misto pubblico-privato, sul quale l’Italia aveva costruito il suo boom economico, con il progressivo attacco alla stabilità lavorativa, dal Pacchetto Treu al jobs act, e con la contrazione forzata della pubblica amministrazione, perseguita soprattutto attraverso anni di blocco del turnover. Per fare i conti con i risultati delle scelte adottate allora (certo, come sappiamo in una situazione non brillante per l’economia nazionale, i conti pubblici, la stessa stabilità politica dell’Italia, terremotata dalle indagini giudiziarie sulla corruzione e dalle stragi di mafia) sono certamente utili i dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico sull’andamento delle retribuzioni.

In estrema sintesi, secondo l’Ocse l’Italia è stata, nel trentennio fra il 1990 e il 2020, il fanalino di coda dell’intera Europa. Tralasciando i nuovi inquilini del condominio Ue, quelli dell’ex blocco sovietico, nei quali la crescita enorme dei salari è andata di pari passo con l’integrazione europea, è sufficiente qualche raffronto con nazioni del versante occidentale dell’Unione. Mentre in Italia, caso unico, i salari scendevano addirittura del 2,9%, in Spagna salivano del 6,2, in Portogallo del 13,7, in Olanda del 15,5, in Grecia del 30,5, in Francia del 31,1, in Germania del 33,7. Paesi, questi ultimi due, che non partivano certo da retribuzioni basse rispetto alla media europea.

Il babau del costo del lavoro

Nonostante l’evidenza drammatica dei dati, aggravata dagli esiti della pandemia e della successiva crisi dovuta alla guerra in Ucraina, i cultori della religione della moderazione salariale, prigionieri del dogma, non demordono. Ne avevamo parlato su “terzogiornale” (qui) a proposito dei timori espressi dal governatore della Banca d’Italia per un alquanto immaginario “rischio di pericolosi avvitamenti tra prezzi e salari”. Ma l’arma da fine di mondo dei sacerdoti di questa credenza, ai limiti della superstizione, è il costo del lavoro: la somma cioè fra salari, previdenza, imposte che determina il carico effettivo che le imprese e le amministrazioni devono impegnare per pagare gli stipendi. “Lavoro: in Italia costo medio orario di 29,4 euro, tre volte quello di Bulgaria e Romania”, recitava un recente titolo del “Sole 24 Ore”, al quale non pare strano paragonare realtà storicamente così lontane fra loro. Ma la tabella di Eurostat sul costo del lavoro, che pubblichiamo qui sotto, dimostra che nonostante il mitico carico fiscale e previdenziale italiano ci sono dieci nazioni europee nelle quali il lavoro costa di più, per l’ottima ragione che sono più alti i salari.

Quanto all’inflazione, è fuori discussione, nei documenti ufficiali delle principali istituzioni finanziarie, il dato che sia stata causata in prima battuta dalle strozzature sulle catene di fornitura (prima per il Covid, poi per la guerra) e che sia soprattutto un effetto della crescita dei prezzi energetici. Ma l’elemento forse più interessante, che se fosse preso in considerazione metterebbe pesantemente in discussione le politiche economiche di diversi governi europei, certamente del nostro, è che si fa strada la convinzione che la crescita abnorme dei prezzi vada considerata anche un’inflazione da profitti. Isabel Schnabel, autorevole economista tedesca componente del Comitato esecutivo della Banca centrale europea, ha recentemente tenuto una conferenza dal titolo “Inflation in the Euro Area and the US – Causes, Persistence, Outlook” e ha pubblicato alcune slide, nelle quali si legge, fra le altre cose, che “la crescita dei profitti ha giocato un ruolo importante nella crescita dell’inflazione interna” in Europa e negli Stati Uniti.

Giorgetti: scurdàmmoce ’o passato

Per tornare al Documento di economia e finanza: può far sorridere, in prima battuta, l’irenica rassegnazione dell’esecutivo al ritorno in auge delle austere regole di bilancio dell’Ue, sia pure nell’attesa riformulazione, leggermente meno ottusa della precedente, che dovrebbe essere formalizzata entro l’anno; certamente lascia qualche perplessità nell’osservatore che ricorda gli anni beati del “sovranismo” e della ostentata e urlata avversione della destra italiana ai diktat europei. Ma volendo prestare attenzione a un dettaglio del Def forse più significativo di altri, però, ci pare il caso di soffermarci su un passaggio introduttivo del dossier che reca appunto la firma di Giorgetti: quello che riguarda la mitica moderazione salariale. “Nel breve termine – scrive il ministro annunciando il modesto intervento sul cuneo fiscale – si opererà per sostenere la ripartenza della crescita segnalata dagli ultimi dati, nonché per il contenimento dell’inflazione. A fronte di una stima di deficit tendenziale per l’anno in corso pari al 4,35% del Pil, il mantenimento dell’obiettivo di deficit esistente (4,5%) permetterà di introdurre, con un provvedimento normativo di prossima adozione, un taglio dei contributi sociali a carico dei lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi di oltre tre miliardi per quest’anno. Ciò sosterrà il potere d’acquisto delle famiglie e contribuirà alla moderazione della crescita salariale. Unitamente ad analoghe misure contenute nella legge di bilancio, questa decisione testimonia l’attenzione del governo alla tutela del potere d’acquisto dei lavoratori e, al contempo, alla moderazione salariale per prevenire una pericolosa spirale salari-prezzi”.

Molto, molto indicativo dell’orientamento governativo che si potrebbe definire eufemisticamente “schierato” a tutela del profitto, anche quest’altro passaggio dell’introduzione al Def, firmata dall’ultrà draghiano Giorgetti: “Alla discesa dell’inflazione si accompagnerà il graduale recupero delle retribuzioni in termini reali, recupero che dovrà avvenire progressivamente e non in modo meccanico, ma di pari passo con l’aumento della produttività del lavoro”. Tradotto: chi ha avuto ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato ha dato, scurdàmmoce ’o passato… anche se Cazzago Brabbia, il paese che ha dato i natali al ministro dell’Economia, è piuttosto lontano dalla Napoli della famosa canzonetta del dopoguerra.

Osservazione finale: per far crescere davvero la produttività, occorrerebbe una politica industriale che cercasse di invertire la trentennale tendenza alle dimissioni e alle delocalizzazioni, magari approfittando della fase di contrazione delle catene del valore lunghe dovuta alle tensioni geopolitiche; occorrerebbe una visione dell’Italia che non si fermasse all’esportazione del prosecco e del parmigiano o all’importazione di turisti, che richiedono servizi a basso costo e lavoro a bassa qualificazione; un impegno gigantesco dello Stato per spingere gli investimenti nei settori a maggiore concentrazione di tecnologia e per contrastare i monopoli sovranazionali che gestiscono i flussi di dati. Difficile, al momento, seguendo la realtà politica italiana, intravedere qualcosa di simile all’orizzonte, mentre in parlamento e sui mass media si è arrivati addirittura a discutere seriamente di rinunciare a una parte dei fondi del Pnrr, come ha proposto in particolare qualche autorevole esponente della Lega, cioè dello stesso partito del ministro Giorgetti, perché lo Stato non è in grado di spenderli.

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