In questi giorni Francesco ha salvato il suo “venerato predecessore” e la Chiesa cattolica, apostolica, romana. Il senso di questo salvataggio va chiarito. Francesco ha impedito che il nuovo cesaropapismo, che vuole saldare all’autorità temporale quella spirituale nel nome di un disegno politico, trasferisse Benedetto XVI a Visegrad. Per riuscirci, i veri nemici di Benedetto XVI – il papa che per primo, in epoca moderna, ha saputo rassegnare le dimissioni in modo pienamente valido e pienamente consapevole – dovevano cancellare il pontificato di Francesco, e trasformare quindi i suoi funerali nella riprova che quella di Pietro era una sede vacante dal 2013. Era questo il loro intento. Cosa sarebbe successo in piazza San Pietro, infatti, se le esequie fossero state accompagnate dalla dichiarazione del lutto in Vaticano, se fossero stati invitati i capi di Stato? Il rischio di un equivoco c’è stato, a causa del prolungato tempo di esposizione della salma, appropriato per i papi regnanti. Ma è stato evitato perché non si sono tenuti funerali di Stato; mentre i capi di Stato del gruppo di Visegrad intervenuti ne avrebbero avuto tutta l’intenzione. Questo tentativo ha messo a rischio l’eredità spirituale di Benedetto XVI, la sua decennale ubbidienza e convivenza con il successore. Il disegno dei “sedevacantisti” era chiaro, ma si basa su una mistificazione. Un Ratzinger cesaropapista non è mai esistito.
Come Massimo Borghesi ha ricordato, già nel 2005, Ratzinger scrisse nel 1998: “Pensiamo soltanto all’episodio relativo al Sinodo di Milano del 355, quando Eusebio di Vercelli, una delle grandi figure che resistettero a questa identificazione, rifiutò di sottostare alla volontà dell’imperatore, che voleva che egli firmasse un documento di fede ariana. A Eusebio, che considera questo documento non compatibile con le leggi della Chiesa, l’imperatore Costanzo risponde: ‘La legge della Chiesa sono io’. La fede è divenuta, quindi, una funzione dell’Impero. Eusebio è, con pochi altri, una delle grandi figure che, come ho detto, resistono a queste insinuazioni e difendono la libertà della Chiesa, la libertà della fede e anche la sua universalità”.
I cesaropapisti, dunque, hanno tentato un colpo di mano: usare Ratzinger per legittimare la tentazione nazional-cattolica. Ma Ratzinger non è mai stato nazionalista: era, come papa e come uomo, un europeo cattolico. Se appare possibile la tesi esposta in questi giorni da Leonardo Boff, e cioè che il suo sogno era quello di una rievangelizzazione dell’Europa sotto la guida della Chiesa cattolica, ciò non prevedeva né comportava alcuna nazionalizzazione della fede. Questa appartiene ai nemici di Benedetto, che intendevano usare la sua morte per destabilizzare Francesco, e che seguiteranno adoperando la categoria del nazionalismo cattolico contro il globalismo ateo. Il loro intento era usare Benedetto fuori dal suo orizzonte europeo e conservatore, al fine di destabilizzare la Chiesa in uscita, quindi non identitarista, di Francesco.
La conferma del tentativo destabilizzatore sta nel cavallo di battaglia prescelto: la messa in latino. Si è tentato di presentarla come una rottura sanguinante tra il papa – che aveva voluto ripristinare la messa in latino, cioè il Vetus Ordo – e l’altro papa che, eletto nel 2013, ne ha ristretto ancor più l’uso nel 2021. Eppure, se vediamo cosa è successo, possiamo facilmente scoprire che le cose sono andate diversamente. Nella famosa intervista concessa al direttore di “Civiltà cattolica”, Antonio Spadaro, Francesco disse: “Ci sono questioni particolari come la liturgia secondo il Vetus Ordo. Penso che la scelta di papa Benedetto sia stata prudenziale, legata all’aiuto ad alcune persone che hanno questa particolare sensibilità. Considero invece preoccupante il rischio di ideologizzazione del Vetus Ordo, la sua strumentalizzazione”.
La cosa più importante sarebbe capire in cosa stia questa possibile strumentalizzazione, che oggi viene forse riproposta; ma il punto espresso da Francesco, il 19 agosto del 2013, è chiaro. E non sembra arbitrario, visto che nel suo atto di governo Summorum Pontificum sulla messa in latino, Benedetto XVI scriveva: “In talune regioni non pochi fedeli aderirono e continuano ad aderire con tanto amore e affetto alle antecedenti forme liturgiche, le quali avevano imbevuto così profondamente la loro cultura e il loro spirito, che il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, mosso dalla cura pastorale nei confronti di questi fedeli, nell’anno 1984 […] concesse la facoltà di usare il Messale Romano”. E questo è rimasto fino al 2021. Allora, nel suo atto di governo, Traditionis Custodes, che restringe l’uso del messale romano, Francesco scrive: “Nel solco dell’iniziativa del mio Venerato Predecessore Benedetto XVI di invitare i vescovi a una verifica dell’applicazione del Motu Proprio Summorum Pointificum (quello con cui Benedetto XVI consentiva, previa autorizzazione, l’uso del messale romano, ndr), a tre anni dalla sua pubblicazione, la Congregazione per la Dottrina della Fede ha svolto una capillare consultazione dei vescovi nel 2020, i cui risultati sono stati ponderatamente considerati alla luce dell’esperienza maturata in questi anni”.
Arriviamo così alla strumentalizzazione della messa in latino. Comprenderne il senso vuol dire capire perché i nemici di Benedetto XVI, che vogliono farne il papa di Visegrad, non attaccano Francesco ma attaccano il Concilio Vaticano II. Lo ha spiegato nel migliore dei modi possibili proprio Benedetto XVI, rivendicando il valore della riforma liturgica conciliare, parlando con il clero romano dopo l’annuncio delle sue dimissioni, il 14 febbraio del 2013: “Dopo la Prima guerra mondiale, era cresciuto, proprio nell’Europa centrale e occidentale, il movimento liturgico, una riscoperta della ricchezza e profondità della liturgia, che era finora quasi chiusa nel Messale Romano del sacerdote, mentre la gente pregava con propri libri di preghiera, i quali erano fatti secondo il cuore della gente, così che si cercava di tradurre i contenuti alti, il linguaggio alto, della liturgia classica in parole più emozionali, più vicine al cuore del popolo. Ma erano quasi due liturgie parallele: il sacerdote con i chierichetti, che celebrava la Messa secondo il Messale, e i laici, che pregavano, nella Messa, con i loro libri di preghiera, insieme, sapendo sostanzialmente che cosa si realizzava sull’altare. Ma ora era stata riscoperta proprio la bellezza, la profondità, la ricchezza storica, umana, spirituale del Messale e la necessità che non solo un rappresentante del popolo, un piccolo chierichetto, dicesse Et cum spiritu tuo, eccetera, ma che fosse realmente un dialogo tra sacerdote e popolo, che realmente la liturgia dell’altare e la liturgia del popolo fosse un’unica liturgia, una partecipazione attiva, che le ricchezze arrivassero al popolo; e così si è riscoperta, rinnovata la liturgia”.
È questa l’essenza della discussione: il clericalismo, e soprattutto la restaurazione – attraverso i simboli – dell’ordine che fu. In questa chiarissima esposizione di papa Benedetto XVI abbiamo forse il senso di chi vuole usarlo contro lui stesso. Tornare al clericalismo, alla separazione tra clero che sa e popolo che segue, o esegue. A questo punto, dobbiamo riprendere quello che afferma Francesco, con il Concilio, nella citata intervista al direttore di “Civiltà cattolica”. Perché una Chiesa che torni nostalgica dell’ordine che fu non andrebbe bene? “Se il cristiano è restaurazionista, legalista, se vuole tutto chiaro e sicuro, allora non trova niente. La tradizione e la memoria del passato devono aiutarci ad avere il coraggio di aprire nuovi spazi a Dio”.