I cinque quesiti referendari, sui quali gli italiani sono chiamati a esprimersi domenica 12 giugno, mortificano innanzitutto l’istituto referendario. La Costituzione gli affida il compito di far esprimere i cittadini su temi importanti e pressanti, che dividono l’opinione pubblica: così fu per il divorzio, l’aborto, l’acqua pubblica o – dolori – per quello sulla scala mobile del 1985 (vinse Craxi e ridefinì i rapporti di forza in campo, e sappiamo come andarono le cose negli anni Ottanta).
Comunque, non serve rifare la storia dei referendum per affermare che quelli prossimi intervengono brutalmente sul nostro ordinamento, ridisegnando alcuni aspetti molto tecnici del sistema. Il rischio di una manipolazione dei quesiti è alto proprio a causa della loro complessità. Matteo Salvini va per le spicce e dice: votate “sì”, per una giustizia più efficiente e per fare in modo che i magistrati che sbagliano paghino (non spiega che è già così). Argomenti iperpopulisti che non hanno attinenza con un sistema giudiziario ben funzionante. Su “terzogiornale” qui siamo già entrati nel merito dei quesiti: qui vogliamo dirvi del loro grado di inganno, palese soprattutto in relazione a due temi.
Il primo è quello della custodia cautelare, molto sentito tra tutti i sinceri garantisti, ma attenzione: i referendari non intendono intervenire sugli abusi della custodia cautelare, ma stravolgerne l’istituto, facendo saltare il sistema attuale con effetti devastanti e immediati: se vincessero i “sì”, diventerebbe impossibile disporre qualsiasi misura cautelare (non soltanto il carcere, anche gli arresti domiciliari, la custodia cautelare in luogo di cura, il divieto e l’obbligo di dimora, il divieto di espatrio, l’obbligo di firma, l’allontanamento dalla casa familiare, il divieto di avvicinamento alle persone offese), motivandola con il rischio che l’indagato-imputato commetta di nuovo il reato – uno dei tre motivi, insieme all’inquinamento delle prove o al rischio di fuga, per i quali possono scattare le misure cautelari.
A meno che il reato non abbia implicato l’“uso di armi”, o l’accusa non sia di mafia, in tutti gli altri casi è un “liberi tutti”: il pensiero va ai colletti bianchi, ma anche alla violenza familiare, alle estorsioni e a molto altro. Diciamola con Nello Rossi, ex procuratore aggiunto di Roma, che su “Questione giustizia” ha definito la sola ipotesi di questo referendum “un boomerang”: se quelle poche righe del codice di procedura penale venissero abrogate, non ci potrebbero essere più arresti cautelari per i reati fiscali e finanziari, per i furti e le rapine, per spaccio, per casi di stalking, o di ripetuta violenza sessuale, né tantomeno per i maltrattamenti in famiglia, e “i potenziali autori seriali di gravi delitti contro la pubblica amministrazione, contro l’economia, contro il patrimonio, contro la libertà personale e sessuale (purché non commessi con violenza)” non potranno essere raggiunti da misure cautelari motivate dal rischio degli atti criminosi.
Altro clamoroso inganno: il quesito sulla Legge Severino non ha nulla a che vedere con la giustizia, ma riguarda la trasparenza e la dignità dell’esercizio delle cariche elettive e di governo. Secondo quella legge, è incandidabile (o decade) chi è condannato con sentenza definitiva a una pena superiore a due anni di reclusione per i delitti colposi per i quali sia prevista una pena nel massimo superiore a quattro anni di reclusione. Una misura di pulizia delle istituzioni, resa necessaria anche dalla ritrosia dei partiti a escludere dalle liste chi non ha un curriculum trasparente.
I referendari sostengono che, abrogando la Severino, “si restituisce ai giudici la facoltà di decidere, di volta in volta, se, in caso di condanna, occorra applicare o meno anche l’interdizione dai pubblici uffici”. Una totale falsità. Quella misura è una conseguenza automatica nel caso venga inflitta una condanna per un tempo non inferiore a cinque anni (art. 29, Codice penale). Nella generalità dei casi, tutte le persone condannate per fatti di corruzione e altri gravi reati (peculato, corruzione, concussione, riciclaggio, associazione per delinquere, porto e detenzione di armi da guerra) possono incorrere in pene inferiori ai cinque anni, e quindi non essere escluse dalla possibilità di ricoprire incarichi parlamentari o di governo, una volta cessati gli effetti della eventuale interdizione temporanea dai pubblici uffici. Insomma, il quesito riguarda più che altro gli amministrati corrotti che non vogliono stare lontano dalle istituzioni. Gli effetti, anche qui, sarebbero devastanti, abbattendo drasticamente il livello di legalità del sistema.
Matteo Salvini punta molto sui referendum, e per il momento pare che rischi assai, visto che si prevedono urne deserte. Ha tirato molto la corda, imponendo al suo stesso partito una campagna referendaria distante dal popolo, alle prese con i problemi del carovita e della mancata ripresa post-Covid, palesemente destinata ad agevolare l’agibilità del ceto politico nei confronti di una magistratura che non è messa bene, ma resta pur sempre un presidio di legalità, finché la sua indipendenza è assicurata. Il grande inganno – se il referendum non sarà valido, o nel caso finisse con il successo dei cinque “no” – potrebbe avere effetti solo sulla sua logorata, fragile e un po’ goffa leadership.