“Pronto, buongiorno. Sono una giornalista e sto lavorando a un servizio televisivo sulle conseguenze della guerra per le nostre industrie. Vorrei venire nella vostra fonderia a girare un po’ di immagini e a intervistarvi”. “Grazie mille, può venire quando vuole, ma quasi tutte le aziende come la nostra hanno spento i forni nei mesi scorsi, a seguito degli aumenti delle bollette. Non ci conviene”. – Tratto da una storia vera (di questi giorni).
L’invasione russa dell’Ucraina, e il livello della risposta militare e sanzionatoria scelto dalle capitali occidentali guidate da Washington, sono solo gli ultimi capitoli di una sequenza negativa di eventi, che aveva già messo in discussione quella ripresa economica che aveva iniziato a tirarci fuori dal buco nero della pandemia. Di alcuni di questi sviluppi “terzogiornale” aveva già parlato qui e qui), ma lo scenario nel frattempo si è decisamente complicato.
Al netto delle vicende militari, imprevedibili anche per gli esperti, la potenziale ricaduta delle sanzioni, in particolare quelle imposte a danno della Banca centrale russa e dei suoi depositi all’estero, ha incassato critiche anche da voci insospettabili, come Wolfgang Munchau, in passato severo giudice della politica energetica di Angela Merkel, che “ha esposto la Germania a una super-dipendenza dal carbone e dal gas russi”. Oggi scrive: “Con questa unica sanzione, abbiamo fatto tutto quanto segue: indebolito la fiducia nel dollaro come principale valuta di riserva mondiale; ostacolato qualsiasi sfida che l’euro potesse mai affrontare; ridotto il merito creditizio delle nostre banche centrali; incoraggiato la Cina e la Russia ad aggirare l’infrastruttura finanziaria occidentale; trasformato il bitcoin in una rispettabile valuta di transazione alternativa”.
Nel frattempo, più osservatori internazionali prevedono un “enorme impatto” del conflitto in Ucraina sui prezzi e le forniture agroalimentari, anche a causa di una significativa interruzione delle catene di fornitura di questi beni essenziali. In Italia si susseguono gli allarmi: Assoutenti, una associazione di consumatori, parla di aumenti in corso fra il 15 e il 30% del prezzo del pane, un indicatore molto sensibile della crisi in atto, e dei drammatici effetti sociali che può avere. Prova a essere rassicurante la comunicazione della Banca centrale europea nel suo periodico outlook sull’inflazione. Anche se “l’inflazione complessiva ha raggiunto il 5,8% a febbraio 2022 e si prevede che rimarrà elevata nei prossimi trimestri”, tuttavia si sbilancia su una possibile discesa dei prezzi del petrolio nel 2022, e osserva che comunque l’indice armonizzato dei prezzi al consumo “al netto di energia e generi alimentari, dovrebbe essere del 2,6% nel 2022”. Mentre nei supermercati italiani si iniziano a intravedere scene di accaparramento dei beni, è difficile pensare che le previsioni moderate della Bce siano sufficienti a scongiurare un effetto di panico su imprese e consumatori. Del resto, nei giorni scorsi, la stessa Bce ha poi rivisto al rialzo le previsioni sull’inflazione dell’anno 2022, ora attesa al 5,1%.
Il caldo e il freddo
La visione più drastica sul futuro prossimo la offre un intervento pubblicato su “Zerohedge”, autorevole blog statunitense in genere su posizioni antikeynesiane e di rigorismo monetario, accusato negli ultimi anni di avere una linea politica “antiamericana”, di volta in volta filorussa o filoiraniana. “L’economia attuale – scrive – è allo stesso tempo troppo calda e troppo fredda. Se questa fosse una normale stagflazione, la vedremmo dissiparsi mentre l’economia si sincronizza nuovamente. Ma non è. Adesso è strutturale. (…) Non puoi aumentare i tassi e fermare l’inflazione se la causa è nelle catene di approvvigionamento. Aumentare i tassi all’infinito non produrrà più merci. Ma continuare con una politica di denaro facile (tassi bassi, ndr) alimenterà la spirale dei prezzi, poiché le persone inizieranno ad accumulare ciò che è difficile da trovare”.
Anche secondo il “Financial Times” “il conflitto in Ucraina aumenta i rischi di stagflazione”; ma il prestigioso quotidiano finanziario anglo-nipponico, nei primi giorni della guerra, suggeriva invece che “una pausa” nei piani delle banche centrali, una politica monetaria più restrittiva, “per vedere come evolve la situazione, sarebbe sensata a breve termine”. Non è però la politica monetaria lo strumento che il giornale indica per affrontare il dramma che sta per scaricarsi sulle popolazioni europee: “La politica fiscale – si legge nell’editoriale – dovrà in definitiva assumersi la maggior parte dell’onere di proteggere i più vulnerabili dall’impatto dei prezzi più elevati. La spesa pubblica non può mitigare l’effetto dell’aumento dei costi delle materie prime, ma può garantire che siano condivisi dall’intera società piuttosto che lasciare solo pochi a tremare e morire di fame per l’impatto combinato dell’aumento dei prezzi di cibo e carburante”.
Ricordate l’attacco confindustriale al “Sussidistan” (che viene meno esecrato quando i sussidi vanno alle imprese)? Ebbene, secondo il “Financial Times” saranno necessari proprio sussidi in denaro, addirittura “finanziati dalla tassazione generale”. Proprio quella che invece tutti i politici italiani dicono di voler alleggerire (in genere a favore dei redditi medio-alti, come si è visto con alcune mosse del governo Draghi, se n’è parlato anche qui). Eppure, proprio gli avvenimenti delle ultime settimane hanno dimostrato, come brillantemente ha sintetizzato Massimo Rocca nel suo blog “Il Contropelo”, che i capitali non sono affatto intoccabili: “Per anni, decenni abbiamo detto, sentito e ripetuto che è impossibile tassare le grandi ricchezze perché possono fuggire in uno schiocco di dita, lasciando il Paese tassatore per i paradisi fiscali. Avete visto, con gli oligarchi, che non è vero? Avete visto che si possono tagliare fuori le Cayman o il Lussemburgo da Swift nel medesimo schiocco? Che è solo questione di volontà politica?”. Attendiamo fiduciosi – si fa per dire – che anche a Roma, Bruxelles e Francoforte facciano due più due.
Tra Versailles e Francoforte
I primi segnali, tuttavia, non sono rassicuranti. In risposta all’acuirsi della crisi inflattiva, la Bce ha ridotto, come era stato previsto, temuto e in qualche misura annunciato, il suo piano di acquisti di titoli, provocando un immediato rialzo dei tassi di interesse dei bond dell’eurozona, tedeschi compresi. Di fronte al rischio di collasso di intere filiere produttive e di una ulteriore paralisi del commercio internazionale già provato dalla pandemia, ha prevalso l’allarme per la crescita dei prezzi, anche se tutte le cronache concordano sul fatto che la discussione nel Consiglio direttivo della Bce è stata animata, e che non c’era affatto un orientamento unanime: alla fine la divisione sarebbe stata 15 a 10 a favore dei rigoristi. Per il “Financial Times”, si tratta della dimostrazione che “i falchi” hanno ripreso il controllo dell’istituzione.
Più ancora delle decisioni, in parte attese, di Francoforte, va registrato l’esito, pesantemente negativo per l’Italia, del vertice europeo di Versailles. Draghi aveva chiesto una “risposta europea”, i mercati avevano scommesso, con un vistoso rialzo degli indici, sulla possibilità che la Bce adottasse una linea di prudenza, e che l’Unione lanciasse dei bond europei per affrontare compattamente la crisi e gli investimenti necessari alla riconversione energetica (oltre che all’annunciato e, a quanto pare, inarrestabile riarmo). Ma i sedicenti Paesi “frugali” (in prima linea Svezia e Olanda) hanno già impugnato il manganello contro ogni ipotesi di nuove emissioni di titoli garantite da Bruxelles. A quanto pare, è più facile convergere sulle forniture di armamenti che su una risposta solidale in campo economico. Non è difficile prevedere che l’Italia – più dipendente di altri dalle forniture energetiche russe, più legata al ciclo delle esportazioni e più esposta sul mercato dei titoli pubblici – possa essere tra le nazioni europee più colpite, in tutti i sensi, dall’evolversi della crisi e dalla minaccia della stagflazione. E che possa trovarsi a dover rispondere all’emergenza da sola o quasi, magari con il solo strumento a disposizione di uno scostamento di bilancio per finanziare nuovo debito. Sotto l’occhio attento e non di rado ostile di alcuni partner europei.