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Home » Articoli » Presidenziali francesi: la sinistra sempre più sfasata e anche l’estrema destra si divide

Presidenziali francesi: la sinistra sempre più sfasata e anche l’estrema destra si divide

Dopo le primarie ecologiste, che hanno visto la vittoria di misura del moderato Jadot, all’ordine del giorno è l’eventuale rinuncia della socialista Hidalgo e una “piccola” candidatura unitaria di sinistra verde. Intanto Éric Zemmour, l’islamofobo radicale che sta mettendo in difficoltà Marine Le Pen, è sfidato in tv dal leader della France Insoumise

6 Ottobre 2021 Sandro De Toni  865

Dopo le elezioni in Germania e le amministrative in Italia, il terzo grande paese europeo alle prese con una consultazione elettorale – decisiva per il futuro proprio e per quello europeo – è la Francia, dove sono in corso le grandi manovre per le presidenziali dell’aprile 2022. Due i fatti nuovi: la scelta del candidato dei verdi con le primarie e l’emergere di un formidabile avversario per Marine Le Pen nel proprio campo politico. Un candidato senza tanti complessi nel fare a meno del “politicamente corretto”. Il quadro complessivo delle candidature e dei posizionamenti ne risulta profondamente modificato, e tutte le previsioni sono da riconsiderare. In questo contesto la sinistra non riesce a individuare una candidatura unica.

La scelta dei verdi mette in difficoltà Anne Hidalgo

Al primo turno delle primarie, quattro candidati ecologisti erano emersi quasi alla pari, Yannick Jadot (27,7% dei voti), Sandrine Rousseau (25,1%), Delphine Batho (22,3%) ed Eric Piolle (22,3%). Lo spareggio tra i primi due, che si è concluso il 28 settembre, ha visto la vittoria di misura di Jadot (51% a 49%) sull’eco-femminista radicale Rousseau. I due rappresentano le posizioni tra loro più lontane all’interno della formazione ecologista. Due linee per certi versi contraddittorie. Jadot ha cercato di apparire come un candidato pragmatico e adatto a governare. Ex direttore di Greenpeace, capolista dei verdi alle europee, è riuscito a ottenere in quelle elezioni il 13,5% dei voti; propone oggi di spendere venti miliardi all’anno per la transizione ecologica e di proibire la vendita delle automobili non elettriche a partire dal 2030. Rousseau invece è un’economista vice-presidente dell’università di Lille. Ha proposto di tassare drasticamente la CO2 (duecento euro la tonnellata) e i più ricchi, e di introdurre un reddito universale di ottocentocinquanta euro mensili.

La vittoria di Jadot rischia di spostare i sostenitori di Rousseau verso Mélenchon, fautore di un ecologismo integrale che prevede la pianificazione (apriti cielo!) ecologica. La stessa Rousseau non ha mai fatto mistero della sua prossimità con Mélenchon, affermando che ha “una vera colonna vertebrale”.

Si apre adesso un serrato confronto diretto tra Jadot e Hidalgo, perché entrambi si contendono lo stesso elettorato di sinistra moderata e più o meno blandamente ecologista. Il segretario dei verdi, Julien Bayou, ha invitato Hidalgo a ritirarsi a favore di Jadot: “Anne Hidalgo è candidata e dice che l’ecologia è importante; la invito dunque a completare il suo ragionamento e a sostenere la candidatura dell’ecologia politica; è molto semplice”. L’eurodeputato dei verdi David Cormand va oltre, affermando che Hidalgo si definisce ecologista pur non essendolo per davvero. E prosegue affermando che siamo alla fine del ciclo delle socialdemocrazie, che quando sente parlare la sindaca di Parigi non riesce a capire quali siano la sua visione e la discontinuità che intenderebbe proporre. Inoltre rivendica che, nel 2017, i verdi avevano rinunciato a presentare un loro candidato e chiamato a votare per l’allora candidato socialista, Benoît Hamon. Implicitamente, chiede che sia loro restituito il favore.

Qualche preoccupazione anche per i sostenitori di Macron che speravano in una vittoria della più radicale Sandrine Rousseau, incapace di impensierirli, e adesso tentano di dipingere il candidato ecologista come un temibile “rosso-verde”, prigioniero di una base che lo spingerà a radicalizzarsi.

“Z” mette in difficoltà Marine Le Pen

Éric Zemmour non è ancora ufficialmente candidato, ma fa scorrere fiumi d’inchiostro e fa apparire decine di migliaia di “like” sui social. La presentazione del suo libro La Francia non ha detto la sua ultima parola riempie i palazzetti dello sport con migliaia di sostenitori entusiasti. Il libro risulta essere il più venduto su Amazon. Giornalista del quotidiano conservatore “Le Figaro”, ebreo di origine algerina (berbera), si può permettere di essere razzista, misogino e omofobo, senza timore di essere dipinto come fascista o nazista. Sostiene, senza paura del ridicolo, che i cinque milioni di francesi di origine maghrebina o dell’Africa nera debbano essere rispediti nei paesi di origine dei loro antenati per evitare la “grande sostituzione” dei franco-francesi con popolazioni di religione islamica. Chiede che venga imposto per legge che non ci si possa più chiamare Mohamed o Fatima, e che debba diventare obbligatorio dare ai propri figli solo nomi cristiani e francesi tradizionali. Ritiene che la Francia stia diventando un paese del terzo mondo a causa di uno “Stato-provvidenza diventato obeso”. Afferma che i datori di lavoro hanno diritto di rifiutare di assumere neri o arabi, visto che la maggior parte dei delinquenti sono appunto neri o arabi. È contrario ai matrimoni omosessuali e denuncia la “lobby gay”. Sostiene di non avere mai incontrato una donna più intelligente di lui, e che il fatto che il potere attiri le donne “sta nel loro cervello arcaico”.

Marine Le Pen – che negli ultimi anni aveva fatto di tutto per far dimenticare l’estremismo del padre, cambiato il nome del “Front” in quello meno ostico e più inclusivo di “Rassemblement national”, moderato il linguaggio e i programmi per apparire più “presidenziabile” – vede adesso eroso il suo elettorato da un temibile concorrente. Tanto più dopo lo smacco subito nelle scorse elezioni regionali.

L’intera destra e lo stesso Macron rincorrono Zemmour sul tema della lotta all’islam politico, definito “una cancrena”. Si susseguono le proposte, una più razzista dell’altra. La France Insoumise, che difende il diritto dei musulmani a praticare la propria religione, viene qualificata come “islamo-gauchista”. Con l’unico risultato di centrare il dibattito politico sui temi securitari e su quelli dell’immigrazione, favorendo così la crescita dei consensi intorno a Zemmour, “Z”, come lo chiamano i suoi fan.

Mélenchon sfida Zemmour

In questo quadro, Mélenchon ha voluto sfidare Zemmour in un dibattito televisivo andato in onda il 23 settembre scorso e durato due ore, con un pubblico di quattro milioni di telespettatori, nel corso del quale si sono confrontate due visioni opposte della Francia. Di Zemmour ho già detto. La sua è una riedizione delle crociate, che nega la complessità della società francese con una storia che si rispecchia nei valori della Rivoluzione e della République. Mélenchon contrappone alla crociata il concetto della “creolizzazione”, riprendendo le tesi dello scrittore martinicano Édouard Glissant. La società, la lingua, l’identità francese hanno assimilato nel corso dei secoli innesti provenienti da altri paesi e da altre culture. Non è nemmeno una scelta, è una constatazione. Si tratta di ridefinire l’essere francesi, senza proporre un divisivo ritorno a un’astratta identità franco-francese, peraltro di ardua definizione. Alle inquietudini identitarie dei francesi si deve rispondere guardando avanti.

Di fronte all’evidente impreparazione del suo avversario, Mélenchon ha avuto buon gioco sui temi economici ed ecologici. Ha potuto replicare a Zemmour che la crescita senza fine non è attuabile, perché il pianeta ha risorse finite, e che la stessa Francia rischia “quattro mesi di siccità all’anno, picchi di 55 gradi di temperatura e la compromissione dell’accesso all’acqua potabile”.

Sui temi sociali ed economici, Zemmour ha cercato di ricondurre il dibattito verso il suo cavallo di battaglia, l’immigrazione: “Rischiamo di diventare un grande Libano, un paese più povero, con più insicurezza, dove il popolo francese sarà sostituito da un altro popolo”. “Siete un disco rotto”, è stata la replica del leader della France Insoumise, che ha potuto richiamare le articolate e precise proposte del suo programma “L’Avenir en commun”, redatto con i contributi di esperti, associazioni, Ong e della sua base militante.

All’interno del quadro descritto, bisogna fare rientrare anche il conflitto sociale che potrebbe riaccendersi nelle prossime settimane. A partire dalle proteste organizzate da diversi sindacati contro la riforma delle pensioni e, nell’immediato, contro l’entrata in vigore dal primo ottobre delle nuove modalità di calcolo dell’indennità di disoccupazione, che distruggono regole in vigore da quarant’anni e penalizzano fortemente chi associa, nel corso dell’anno, lavoretti precari a periodi di disoccupazione. Il governo prevede al riguardo un risparmio annuale di 2,3 miliardi di euro a scapito delle figure lavorative più deboli.

L’ultimo sondaggio

Il sondaggio del 28 settembre scorso, condotto dalla società Harris Interactive dopo le primarie dei verdi e il confronto Zemmour-Mélenchon, traccia le nuove tendenze dell’opinione pubblica in merito alle prossime elezioni presidenziali. Tranquillo (per il momento), in testa, è Macron con il 24%. A destra, la corsa è sostanzialmente a tre: Marine Le Pen, che cala dal 28% di giugno al 16%, tallonata da Zemmour con il 13% (altri sondaggi lo danno al 15%) e Xavier Bertrand, il candidato più accreditato dei gollisti, con il 14%.

A sinistra c’è ancora più frammentazione. Mélenchon è accreditato di un 13%, Hidalgo del 7%, mentre Jadot si deve accontentare del 6%. Senza dimenticare un outsider come Arnaud Montebourg al 2%, e il comunista Fabien Roussel all’1-2%.

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