
La crisi ucraina ci deve fare riflettere sul fatto che gli Stati Uniti e l’Unione europea non hanno ancora saputo, o voluto, risolvere i contenziosi rimasti aperti in seguito alla fine dell’Unione sovietica. L’Occidente ha commesso, nei riguardi della Russia, lo stesso errore commesso da Francia e Inghilterra nei confronti della Germania sconfitta nella prima guerra mondiale, lo stesso genere di umiliazione politica ed economica, che condusse alla fine della Repubblica di Weimar e alla presa del potere da parte dei nazisti. Annota lo studioso statunitense David Harvey: “Non c’è stato alcun tentativo di integrare il popolo e l’economia russa nel sistema globale, com’è successo nel 1945 con il Giappone e la Germania occidentale. Alla Russia è stata applicata la terapia d’urto neoliberale, con risultati orrendi: il Pil è crollato, l’aspettativa di vita è diminuita precipitosamente, la posizione delle donne è stata svilita, c’è stato un crollo totale del benessere sociale e delle istituzioni governative, l’ascesa della politica mafiosa intorno al potere oligarchico”.
Il consenso dei russi, almeno finora, verso la figura di Putin e verso la sua politica prende origine da questa esperienza traumatica. La Russia, nel frattempo, ha saputo risalire, almeno in parte la china, ampliando il suo apparato militare. E adesso presenta il conto. Niente di tutto ciò giustifica le azioni dell’autocrate russo, l’invasione dell’Ucraina, le sofferenze inflitte alla sua popolazione; ma riproporre come antidoto l’Alleanza atlantica, che ha pesanti responsabilità nella situazione attuale, e l’ulteriore militarizzazione dell’Europa, non rappresenta certo la soluzione.
Dopo la crisi del 2008-2009, è finita l’era dell’unipolarismo americano, e anche l’illusione della “fine della storia”, di cui il capitalismo di matrice occidentale, libero di ogni lacciuolo e minaccia, sarebbe l’ultimo approdo. Assistiamo al declino degli Stati Uniti, che non si rassegnano alla perdita di egemonia che possono provare a riaffermare solo manu militari. Ugualmente per via militare è concepita la rivincita russa. L’Unione europea ha lasciato, in tutti questi anni, gestire a Washington il rapporto con Mosca. Adesso si trova schiacciata sull’America, senza poter sviluppare un’autonoma iniziativa di una qualche efficacia.
Di questo passo, il vecchio continente rischia di tornare a essere un campo di battaglia. Si tratta di una situazione foriera di pericoli: una superpotenza che non accetta il diritto di altri grandi Stati a concorrere alla definizione di un assetto globale multipolare rischia di trascinare tutti verso il baratro. Brutto a dirsi, ma il riequilibrio del quadro internazionale non può prescindere dal riconoscimento di rispettive sfere di influenza, quindi da una certa dose di “politica di potenza”, che deve trovare i suoi limiti nel bilanciamento con l’interesse altrui, e soprattutto nell’interesse generale alla preservazione della sopravvivenza del genere umano.
Gli Stati Uniti, malgrado le promesse fatte a Gorbaciov nel 1991, hanno conseguito l’allargamento progressivo della Nato – passata da 16 a 30 membri in vent’anni –, che rimane come una presenza ingiustificabile e ingombrante dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia. Questa politica aggressiva segnala il permanere di un’ottica che non contempla l’emergere di un mondo multipolare, in cui gli Stati Uniti non siano più “i guardiani del pianeta”, e non rappresentino più l’unico “Impero” del nuovo ordine della globalizzazione (come teorizzato da Toni Negri e da Michael Hardt nel 2003).
Non valgono neanche le semplificazioni che teorizzano la nascita di un unico blocco russo-cinese, né le semplificazioni che teorizzano una omogeneità di posizioni della stessa “Nato asiatica” (il cosiddetto “Quad” che comprende Stati Uniti, Giappone, Australia e India). La Cina, infatti, non ha votato la risoluzione di condanna dell’invasione russa dell’Ucraina all’Onu, astenendosi; allo stesso modo neppure l’India ha votato a favore. Hanno assunto questa posizione, tra gli altri, anche il Pakistan, gli Emirati arabi uniti, la Turchia, l’Iran, l’Iraq, l’Algeria, il Sudafrica, il Senegal, mentre il Marocco e il Venezuela non hanno partecipato al voto. Si sono dunque astenuti Paesi che rappresentano la metà dell’umanità. L’Occidente sarà compatto, ma l’Occidente non è tutto.
Appare ora possibile una mediazione della Cina, richiesta dal ministro egli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, al suo omologo cinese Wang Yi. Lo stesso “Financial Times” si spinge a definire la Cina “il possibile mediatore”. La Cina potrebbe riuscire a inserirsi dove né gli Usa né l’Europa possono; e potrebbe così dimostrare di essere realmente un attore responsabile sulla scena internazionale; la sua mediazione potrebbe ottenere un notevole risultato politico e di prestigio, soppiantando Washington come perno degli equilibri mondiali. Così si metterebbe il suggello alla “profezia” di Giovanni Arrighi che prevedeva, nella successione dei paesi egemoni nel sistema capitalistico mondiale, dopo i secoli dominati rispettivamente da Genova, dai Paesi Bassi, dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti, il Ventunesimo secolo della Cina.
La Cina ha ottimi rapporti con ambedue i contendenti. Il 4 febbraio scorso, alla vigilia dei giochi olimpici invernali, Xi Jinping e Vladimir Putin hanno firmato accordi su diversi terreni dichiarando che l’amicizia tra i due Paesi “non ha limiti”. Nei giorni scorsi, Wang Yi ha “deplorato” l’invasione dell’Ucraina, ma ha altresì sottolineato come “la sicurezza regionale non può essere raggiunta espandendo i blocchi militari”. L’“impero di mezzo” ha poi solidi legami economici anche con l’Ucraina, di cui è diventata il principale partner commerciale. Insomma, ha le physique du rôle per raggiungere un accordo tra le parti.
In Europa, invece, tira una brutta aria da 1914: nel giubilo generale sembra che non si veda l’ora di partecipare al conflitto; si invia materiale bellico all’Ucraina, si rafforza la presenza militare Nato ai confini est dei Paesi aderenti all’Alleanza atlantica, si adottano pesanti sanzioni economiche. L’Unione europea intende “fornire le armi necessarie per una guerra” – secondo i termini del commissario, Josep Borrell, incaricato delle relazioni esterne –, inasprendo le sanzioni contro le esportazioni russe di gas e petrolio, e contro le operazioni interbancarie.
Certo, l’esclusione degli istituti di credito russi dalla piattaforma Swift per gli scambi interbancari rallenterà notevolmente le attività delle banche russe. Ma vanno fatte due osservazioni. Innanzitutto, questa misura è stata già utilizzata, senza effetti decisivi, per sanzionare i tiri missilistici della Corea del Nord nel 2017, e, un anno dopo, contro l’Iran su iniziativa dell’amministrazione Trump. Inoltre, queste sanzioni economiche stanno spingendo la Russia sempre più verso un’organica alleanza economica, politica e militare con la Cina, che può fornirle in qualche modo alternative commerciali, tecnologiche e finanziarie, a partire dalla piattaforma per le relazioni interbancarie Cips. La misura più efficace, a detta di molti esperti, è il congelamento dei fondi della banca centrale russa. Ma questo provvedimento non è una “sanzione”: è di fatto un atto di guerra aperta, infinitamente più grave dell’estromissione parziale della Russia da Swift, su cui si concentra l’attenzione dei mass media. Accompagnato dall’invio di armi, e magari dall’ingresso immediato dell’Ucraina nell’Unione europea, significa un passo da gigante verso la guerra totale.
La risposta deve essere diplomatica: l’Europa deve esserne protagonista e riprendere in mano il proprio destino, in parallelo con l’azione mediatrice di Pechino. È necessario convocare una sessione straordinaria dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), organizzazione creata a questo scopo dagli accordi di Helsinki nel 1975. L’obiettivo sarebbe quello di definire, nel nostro continente, un’aerea denuclearizzata che garantisca russi, ucraini e gli altri europei. Il presidente Zelensky ha ufficialmente detto di essere pronto a dichiarare la neutralità del proprio Paese. D’altra parte, questa neutralità è stata adottata dal parlamento ucraino nel 1990, il giorno del voto della sua dichiarazione di sovranità, in cui si legge che l’Ucraina “dichiara solennemente la sua intenzione di essere uno Stato neutrale, permanentemente, che non partecipa a nessun blocco militare”. Si potrebbe per questa via far terminare il martirio del popolo ucraino e imporre un “cessate il fuoco” alla Russia.