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Home » Opinioni » Una riforma fiscale che ancora non c’è

Una riforma fiscale che ancora non c’è

Draghi ne aveva parlato al momento della presentazione del suo governo, e l’Europa raccomanda dal 2019 una revisione del catasto edilizio. Ma il latente scontro di classe in atto intorno al progetto non consente di attendersi il meglio

20 Settembre 2021 Alfonso Gianni  438

Era atteso in parlamento entro il 31 luglio di quest’anno. Così resta scritto nel Piano nazionale di ripresa e resilienza. Poi il disegno di legge delega di riforma fiscale è stato rimandato di settimana in settimana, e ancora oggi nessuno può scommettere che sia realmente in dirittura d’arrivo. La riforma fiscale non è tra quelle che il Pnrr considera di contesto o “abilitanti”, ma di “accompagnamento” alla realizzazione degli obiettivi generali e quindi “parte integrante della ripresa”. A sottolinearne la rilevanza era stato lo stesso presidente del Consiglio quando, nel suo discorso sulla fiducia, aveva paragonato il lavoro da fare, nella sua portata e nel metodo, a quello compiuto nei primi anni Settanta dalla Commissione guidata da Cesare Cosciani e Bruno Visentini. Ma poi si scoprì che quei passi erano stati copiati da un editoriale di Giavazzi, apparso sul “Corriere” qualche tempo prima. Una scelta poco raffinata, che comunque non scalfiva l’enfasi posta sul tema. Al quale evidentemente Mario Draghi intendeva legare la sua credibilità nel paese e soprattutto in Europa.

Il continuo viavai fra le Commissioni parlamentari che adottarono un testo – davvero pessimo – che avrebbe dovuto facilitare l’opera del governo nella stesura definitiva e il gruppo di esperti messo in piedi dal Mef mostra che non siamo di fronte a qualche tecnicalità o al pericolo di incorrere nel rischio dell’eccesso o di carenza di delega, ma a uno scontro politico di tutta rilevanza. Lo si è visto nei giorni scorsi con l’alzata di scudi della destra di governo e di opposizione, al solo apparire della ipotesi di inserire nella legge delega la riforma del catasto.

Eppure, in questo caso, è giusto dire che “ce lo chiede l’Europa”, visto che al primo punto delle raccomandazioni rivolte all’Italia già nel 2019 compariva esplicitamente la richiesta di “riformare i valori catastali non aggiornati”. Nelle intenzioni degli “esperti”, si tratterebbe di sostituire il metro quadrato al vano come unità di misura; di scovare le “case fantasma” grazie all’aerofotogrammetria, che già ha rivelato l’esistenza non registrata di 1,2 milioni di unità immobiliari; quindi di avvicinare gradualmente le rendite ai valori di mercato.

Ma una misura del genere avrebbe sconvolto i sonni della proprietà edilizia, il cui peso nella storia politica e sociale del nostro paese è ben noto. E già Matteo Renzi, quando era presidente del Consiglio, bloccò un decreto attuativo sul catasto già pronto. Ora l’intervento è stato addirittura preventivo. Non a caso, visto che alla revisione del catasto è legata un’efficace tassazione patrimoniale. Negando in partenza la prima, si renderebbe meno credibile la seconda. Con buona pace di quanto stava scritto sull’abito bianco indossato da Alexandria Ocasio-Cortez sul red carpet del Met Gala di New York. La legge delega dovrebbe basare il nuovo fisco su un sistema duale, nel quale la tassazione progressiva verrà limitata ai redditi da lavoro, mentre quella proporzionale riguarderà interessi, dividendi, plusvalenze, affitti, rendite, redditi figurativi del capitale. Su tutti questi si applicherà una percentuale fissa che dovrebbe coincidere, secondo quanto emerso nella discussione parlamentare, con la più bassa delle aliquote progressive che si applicheranno ai redditi da lavoro e da pensione.

Nella delega non ci saranno indicazioni precise su aliquote e scaglioni, che saranno definiti nei successivi decreti attuativi. Ma è proprio qui che si concentra buona parte dello scontro di classe in atto, più implicito che esplicito, visto che chi sta più in basso è privo di rappresentanza politica specifica. L’alleggerimento del carico fiscale sul lavoro dipende da come saranno disegnati scaglioni e aliquote. Non a caso nel 1974 il sistema tributario era costruito su un arco di aliquote che andavano dal 10% al 72%. Da allora scaglioni e aliquote sono diminuiti drasticamente, e questo ha concorso in modo incisivo all’enorme trasferimento di ricchezza a favore dei più ricchi. Ciononostante le destre non hanno rinunciato ai loro progetti di flat tax e di riduzione a tre delle aliquote.

Ma anche senza arrivare a tanto, se si intervenisse sul terzo scaglione – ove si concentrano i redditi della ambita classe media –, una riduzione dell’aliquota favorirebbe proporzionalmente di più coloro che si trovano nella parte alta dello scaglione che non quelli che si trovano nella parte bassa. Ovvero, ai valori attuali, chi si avvicina più ai 55mila euro che non ai 28mila, poiché per questi ultimi una riduzione agirebbe solo su una parte minimale del loro reddito.

Nel contempo, pare che non si proceda ad alcun intervento sull’Iva, tagliando in partenza i progetti di una lotta efficace all’evasione, mentre si parla della sparizione dell’Irap. Proprio quest’ultima potrebbe essere anticipata nella legge di bilancio con il rischio che la famosa riforma si riduca solo a questo o poco altro, ovvero che l’antipasto si mangi le altre portate. Non si tratterebbe di mancanza di risorse, ma di una perversa volontà politica cui Draghi non pare voglia opporre resistenza. Anzi. Sta di fatto che una riforma considerata essenziale per la ripresa – mentre si celebrano le magnifiche sorti del “rimbalzo” economico – ancora non c’è. E, per ciò che se ne sa, è prudente non attendersi il meglio.

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TagsAlfonso Gianni ricchezza riforma fiscale scontro di classe

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