
Il 17 febbraio scorso dieci agenti di polizia penitenziaria, in servizio nell’ottobre 2018 nel carcere di San Gimignano, sono stati condannati dal giudice dell’udienza preliminare di Siena, Jacopo Rocchi, a pene dai due ai tre anni di reclusione per il pestaggio di un detenuto tunisino in carcere per spaccio di stupefacenti. Potrebbe sembrare una storia di ordinaria violenza penitenziaria, ma non lo è perché per la prima volta un tribunale italiano ha applicato il reato di tortura previsto dalla legge 110, approvata nel luglio 2017, dopo un lungo e tormentato iter, iniziato con l’approvazione da parte dell’Onu di una Convenzione internazionale che imponeva ai paesi aderenti di riconoscere il reato di tortura. Tutti sanno che la tortura, condannata a parole e negata nei fatti, è diffusa in molti paesi, anche democratici, in nome di un qualche fine superiore e non dicibile che, per proteggere il potere, ha bisogno di esercitare una violenza immotivata e totale fino a umiliare la dignità umana.
Per una singolare coincidenza, proprio a San Gimignano, a un paio di chilometri dal carcere c’è da tempo un Museo della tortura in cui sono esposti oggetti e strumenti usati per infliggere sevizie usati fin dal medioevo: fruste taglienti, sedie chiodate dove venivano legate le vittime durante gli interrogatori, maschere di legno per coprire il viso dei torturatori. Strumenti che non compaiono nel processo di Siena, naturalmente, anche se la volontà di umiliare la persona del giovane africano emerge dalla gratuita violenza di cui è stato oggetto da parte di uomini che, al contrario, avrebbero dovuto garantire la sua sicurezza. Anche per l’evidenza dei fatti (agli atti c’è un video che riprende alcuni momenti del pestaggio) dieci dei quindici agenti hanno scelto la strada del rito abbreviato che consente di dimezzare la pena in cambio di una sia pur tacita ammissione di responsabilità. Pene che nei casi più gravi prevedono condanne fino a dieci-dodici anni di reclusione. Gli altri cinque agenti, la cui posizione sarebbe più marginale, hanno invece scelto il rito ordinario e andranno a dibattimento il 18 maggio prossimo.
Non a tutti questa legge piace. Di fronte al tribunale di Siena è comparso Matteo Salvini: “Se c’è un video deve essere mostrato”, ha tuonato davanti alle telecamere. Ma i processi a rito abbreviato si svolgono a porte chiuse, le immagini esaminate in aula mostrano in effetti un’aggressione a freddo, ufficialmente motivata da un trasferimento coatto di cella che in nessun caso prevede l’impiego di un così alto numero di agenti e ispettori. Il trentenne tunisino stava per recarsi in doccia, aveva un asciugamano sulle spalle quando è stato accerchiato e trascinato a terra per decine di metri, per umiliarlo gli sono stati tolti i pantaloni mentre veniva picchiato selvaggiamente fino a quando, sanguinante e privo di sensi, è stato abbandonato in una cella senza che nessuno si curasse di accertare le sue condizioni di salute. Una spedizione punitiva aggravata da gratuita crudeltà. Nell’ordinanza si parla di “trattamento inumano e degradante”. Tortura, dice la nuova legge che però non decolla se pensiamo che, a quattro anni dalla sua approvazione, è questo l’unico processo importante approdato a sentenza.
Qualche retroscena per comprenderne le difficoltà di applicazione. Per paura di ritorsioni, il detenuto tunisino non ha mai denunciato il pestaggio, ha perfino rifiutato di farsi visitare in ambulatorio e quando gli hanno chiesto del taglio sul sopracciglio ha detto di essere caduto. La prima ad accorgersi che c’era qualcosa che non andava è stata un’operatrice del carcere, che ha avuto il coraggio – è il caso di sottolinearlo – di firmare una lettera al giudice di sorveglianza da dove sono partiti i primi accertamenti. Anche il medico del carcere è stato condannato a quattro mesi per omissione di atti d’ufficio, non avendo visitato e refertato il detenuto. Il giudice ha infine stabilito che la vittima dovrà essere risarcita con ottantamila euro mentre l’associazione L’Altro Diritto, che si è costituita parte civile quale garante dei detenuti del comune di San Gimignano, riceverà cinquemila euro.
Il merito di questa legge va ad Antigone, un’associazione nata negli anni Ottanta in difesa dei detenuti e che, fin dal 1998, si è battuta per introdurre nel codice penale il “reato che non c’è”. Ma, ora che finalmente c’è, lamenta che la nuova legge “non ha la conformazione giuridica prevista dall’articolo 1 della Convenzione delle Nazioni Unite” che limita il delitto ai soli pubblici ufficiali. Secondo Antigone il parlamento avrebbe ceduto a pressioni provenienti da ambienti vicini alle forze dell’ordine: infatti la legge 110 rivela i compromessi politico-culturali di cui è frutto. Ambigua, a tratti pleonastica e perfino “pasticciata”, è il severo giudizio. Il concetto stesso di tortura, esteso anche a relazioni private e familiari, finisce per dilatare i confini dell’applicazione della norma fino a sovrapporsi ad altri reati per i quali sono previste pene maggiori, come il sequestro di persona o il tentato omicidio. Sfuma anche la specifica responsabilità del pubblico ufficiale quando la vittima, in stato di arresto, è privata della libertà personale, e pertanto soggetta a regole e poteri che possono sopraffarla, come accade proprio in carcere o al momento del fermo o dell’interrogatorio.
Ben diverso è il tono delle denunce che provengono dai campi profughi in Libia, quando le vittime di torture riescono a sfuggire ai propri carcerieri e sbarcano in Italia. Non c’è dubbio che in questi casi prevale la totale assenza di controllo non soltanto da parte del governo libico ma anche delle forze internazionali presenti sul territorio. Frequenti i tentativi di annegamento con la testa immersa più volte nell’acqua, le bruciature sotto le palme dei piedi e delle mani, le fratture provocate dalle percosse e altre sevizie nei confronti di chi ha soltanto tentato di fuggire dall’inferno. Torture che ci riportano con la memoria ai gravi episodi avvenuti nelle caserme negli anni del terrorismo. Come quelle inflitte alla cellula di Antonio Savasta, responsabile del sequestro Dozier, o come i litri di acqua salata fatti ingurgitare con la forza a Enrico Triaca arrestato a Roma nel covo di via Pio Foà. Episodi lontani, ma rimasti impuniti in nome dell’emergenza terrorismo. E anche oggi quasi mai gli episodi di violenza in carcere vengono allo scoperto e sono condannati.
Un anno fa, esattamente tra il 7 e il 9 marzo 2020, mentre sui teleschermi sfilavano i cortei di bare e il premier Conte firmava il primo decreto che annunciava il lockdown nazionale, nelle carceri italiane sono esplose rivolte culminate con tredici detenuti morti in circostanze non ancora chiarite. A causa di incendi da loro appiccati in 70 istituti penitenziari su 189 e andati letteralmente distrutti, o in regolamenti di conti tra bande rivali, o ancora in scontri con i reparti antisommossa? Le proteste, in quei giorni drammatici, erano state provocate dal timore dei contagi, ma anche dal blocco dei colloqui. A un certo punto si è ipotizzato che i disordini fossero stati orchestrati dalla mafia, ma in assenza di indagini approfondite non ne abbiamo certezza. Dice Catello Maresca, ex magistrato della Direzione nazionale antimafia, oggi sostituto procuratore generale di Napoli: “Oltre allo stato di emergenza economica e sanitaria doveva essere proclamata anche l’emergenza nelle carceri”. Poi aggiunge: “Sono morti quelli del terzo letto”. Nel gergo carcerario sta a indicare i poveracci che nei letti a castello occupano l’ultimo piano. Forse per questo lo Stato ha voltato la testa dall’altra parte.